E’ notizia di questi giorni che i bancari hanno ottenuto un maxi-aumento degli stipendi: +435 euro al mese in media, pari al 15% rispetto alla busta paga del giugno scorso. Sarà erogato in quattro tranche, di cui l’ultima da 35 euro dall’1 marzo del 2026. Non c’è stato alcuno sciopero indetto dai sindacati di categoria, i quali hanno servito a Cgil e Uil una lezione su come si gestiscano con efficacia le relazioni con le imprese. Certo, le banche se la passano molto bene in questa fase, avendo potuto sfruttare a loro vantaggio l’aumento dei tassi di interesse.

Non è questa la situazione per la generalità delle imprese italiane, che pagano proprio il caro prestiti e il rallentamento dell’economia.

Stipendi in calo, sindacati incapaci

Sta di fatto che l’Italia è l’unico paese dell’Ocse ad avere registrato un calo reale degli stipendi tra il 1990 e il 2020: -2,9%. Tutti gli altri paesi hanno visto aumentare il potere di acquisto dei salari, sopra il 30% in Francia e Germania. Significa che i sindacati italiani non sono stati in grado di fare il loro mestiere. Sarebbe riduttivo fare ricadere esclusivamente su di loro colpe “di sistema”, ma la verità è che essi portano con sé gravi responsabilità sul deterioramento delle condizioni retributive dei lavoratori italiani.

Trenta anni di politicizzazione

Negli ultimi trenta anni, abbiamo visto scendere in piazza i sindacati solamente quando al governo c’era la coalizione di centro-destra e per questioni che sarebbero oggi considerate marginali. Nel 1994, protestarono veemente contro la proposta di riforma delle pensioni del primo governo Berlusconi, che prevedeva l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni per uomini e donne. Un paio di mesi più tardi, siglarono un’intesa con Palazzo Chigi su una riforma ben più spinta. Il premier era Lamberto Dini, già ministro del Tesoro del precedente esecutivo e sostenuto stavolta da una coalizione di centro-sinistra più Lega.

L’ultima grande manifestazione dei sindacati fu nel 2003 contro la legge Biagi. Parliamo dei famosi 3 milioni di presenze al Circo Massimo. La lotta contro la precarizzazione del lavoro fu ingaggiata senza quartiere. Anni dopo, gli stessi accettarono senza fiatare la legge Fornero del governo Monti e il Jobs Act del governo Renzi. Risultato: nessuno oggi crede più ai sindacati, la cui azione è percepita frutto di politicizzazione. Basti guardare alla fine che fanno i segretari confederali una volta terminato il mandato: il più delle volte finiscono in Parlamento, eletti nelle liste dei partiti contro cui avrebbero teoricamente dovuto difendere i diritti degli iscritti.

Sciopero generale fasullo e flop

Il 17 novembre scorso, Cgil e Uil hanno rimesso piede nelle piazze. Un flop umiliante. Ad avere aderito allo pseudo sciopero generale sarebbe stato intorno al 7% dei dipendenti pubblici. Cos’è andato storto? In primis, la mancata adesione della Cisl, che tra i dipendenti pubblici è molto forte. Secondariamente, il pasticcio legale, con la precettazione firmata dal vice-premier Matteo Salvini. Terzo, non si è capito contro cosa scioperassero.

Ed è questo il vero guaio dei sindacati nostrani. Quando scendono in piazza, le loro rivendicazioni sono generiche, com’è stato il 17 novembre scorso. Ai lavoratori non interessa un’astensione contro “le politiche del governo”. Essi pretendono di conoscere nel dettaglio le richieste su salari e condizioni non retributive. I sindacati protestano contro il governo, ma si guardano bene dall’intavolare trattative serie con gli imprenditori privati. Le loro sono rivendicazioni sempre ai danni dei contribuenti, incapaci di ottenere una fetta più grande della torta sfornata dai processi di produzione.

Sindacati hanno venduto l’anima per il potere

Che oltre la metà dei contratti di lavoro siano scaduti, è il segno evidente della sterilità dei sindacati italiani. Vorrebbero che il governo si sostituisse a loro per ottenere tramite vie legali gli aumenti salariali che non riescono minimamente a strappare.

L’Italia vanta tra i tassi di sindacalizzazione più alti del mondo occidentale. Il risultato è che, per stessa ammissione dei segretari confederali, il lavoro povero dilaga e i contratti scaduti restano tali per anni e sono rinnovati eventualmente senza sostanziali miglioramenti per i lavoratori. La colpa è dei governi o di chi non sa fare il proprio mestiere?

I sindacati non vivono da troppo tempo nelle fabbriche, preferendo sedere nelle più comode poltrone dei palazzi della politica. Questo condanna i lavoratori ad essere orfani di rappresentanza là dove serve. Con la firma del patto di moderazione salariale nel ’93, i sindacati sembrano avere abdicato al loro compito per abbracciare un’agenda politica ben precisa: nessuna rottura di scatole alle imprese, in cambio di una sorta di riconoscibilità politica a tutti i livelli. La conflittualità si è ridotta per la gioia del capitale, ma adesso si tenta un recupero disperato della credibilità a colpi di scioperi contro un governo “nemico”. I lavoratori non stanno abboccando.

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