I prezzi del petrolio americano sono scesi ben sottozero nelle precedenti sedute, arrivando a un minimo storico di quasi -40 dollari. Sembra incredibile anche solo pensarlo, ma è accaduto. E a marzo, i prezzi al consumo negli USA sono diminuiti dello 0,4% su base mensile, segnalando la maggiore contrazione congiunturale degli ultimi 5 anni. Il Fondo Monetario Internazionale ha lanciato l’allarme su una temporanea deflazione, nel caso in cui la domanda dovesse rimanere debole e non tenere il passo con l’offerta per un periodo prolungato.

Benvenuta deflazione nell’era del petrolio a 25 dollari, ma non per tutti

Adesso che il petrolio costa ai minimi da 20 anni, il timore che le economie di Nord America, Europa, Giappone e Australia scivolino nella deflazione si fa più concreto. Per deflazione s’intende che l’indice generale dei prezzi al consumo, anziché salire, ripiega. Da decenni si ha una narrazione pregiudizialmente negativa su questo fenomeno, anche perché l’ultima volta che il pianeta visse una fase deflattiva fu con la Grande Depressione iniziata nel 1929 e, pertanto, questa viene associata alla crisi, sebbene nei secoli passati non fosse esattamente così.

Rifacendoci proprio alla crisi del ’29, scopriamo che nei tre anni successivi i prezzi crollarono mediamente negli USA del 23% e per tornare ai livelli pre-crisi servirono ben 14 anni. Nel quadriennio successivo all’avvio della contrazione economica, il pil americano perse oltre il 26%, riacciuffando i livelli pre-crisi dopo “soli” otto anni, ma anche grazie alla produzione bellica, che nella seconda metà degli anni Trenta sostenne la domanda interna, in previsione del secondo conflitto mondiale. Dunque, i prezzi si mossero allora più lentamente rispetto all’economia nella fase di ripresa, pur essendosi contratti sostanzialmente della stessa entità.

Cosa accadrà dopo l’emergenza Coronavirus

Ora, appare altamente improbabile che il mondo riveda quei dati. I prezzi oggi si mostrano più rigidi, in un certo senso, come dimostrano i cali abbastanza contenuti del carburante alla pompa in Italia, frutto di margini a favore dei rivenditori e delle compagnie stesse difficili da comprimere nel breve termine.

In generale, gli stipendi dei lavoratori dipendenti non possono essere tagliati per via degli accordi sindacali con validità legale, così come stipendi pubblici e pensioni restano certamente inalterati e non subiscono decurtazioni per il semplice fatto che l’economia viva una fase di prezzi calanti. Questo limiterebbe l’entità della deflazione, che pure potrebbe materializzarsi nei prossimi mesi, per non parlare degli enormi stimoli fiscali e monetari adottati da tutti gli stati principali del pianeta e nel bel mezzo dei “lockdown” disposti per fermare o almeno frenare la diffusione del Coronavirus.

Ci sarà inflazione o deflazione dopo l’emergenza Coronavirus?

Il timore di indici dei prezzi in caduta del 5-10% all’anno, insomma, sarebbe fugato. Per contro, bisogna ammettere che nell’ultimo decennio abbiamo riscontrato grosse difficoltà in Occidente nel tendere ai target d’inflazione fissati dalle banche centrali. E questa persistente bassa inflazione non a caso ha seguito la scorsa crisi finanziaria mondiale, la cui entità appare ormai modesta rispetto a quella in corso. Fattori strutturali, come l’invecchiamento della popolazione, l’avanzamento tecnologico e la globalizzazione hanno contribuito in misura determinante a tenere i prezzi più o meno stabili ovunque tra i paesi economicamente maturi.

Effetti pratici della deflazione

Cosa accadrebbe in uno scenario di deflazione strisciante? I prezzi diminuirebbero e i consumatori troverebbero conveniente rinviare gli acquisti di beni durevoli, così da spuntare costi inferiori. Per contro, le imprese avrebbero convenienza ad anticipare la produzione per vendere a prezzi più alti. S’innescherebbe una spirale recessiva sul mercato dei beni e dei servizi, con l’offerta ad eccedere la domanda e spingendo i prezzi sempre più in basso.

Una fortuna per quanti riuscissero a salvaguardare i livelli di reddito, il cui potere di acquisto crescerebbe. Molti, però, rischierebbero il licenziamento o dovrebbero chiudere l’attività, perché la produzione delle imprese ripiegherebbe con prezzi calanti. E se il fenomeno persistesse nel tempo, si giungerebbe a una revisione dei contratti, con stipendi e salari nominali ad essere rivisti al ribasso.

Di per sé, prezzi in calo aumenterebbero la competitività del sistema Paese, consentendo a un’economia esportatrice come l’Italia di vendere più merci all’estero. Tuttavia, poiché il fenomeno riguarderebbe un po’ tutti i mercati avanzati, tenderebbe ad avere effetti neutrali sulle bilance commerciali, semmai facendo guadagnare un po’ di competitività nei riguardi delle economie emergenti e della Cina, i cui tassi d’inflazione sono destinati a restare positivi. Ma il “gap” dei salari e dei prezzi con questi mercati è così ampio, che difficilmente basterebbe qualche anno di deflazione strisciante per riequilibrare i saldi dell’import-export.

Lo scenario di base non non sarebbe quello sopra descritto. Più probabile che i prezzi tenderanno a ristagnare o a flettere di poco, rimanendo complessivamente inalterata la percezione sul costo della vita, anche perché si farà fatica a mantenere gli standard di vita pre-Coronavirus per alcuni mesi, anzi per qualche anno, date le previsioni non esaltanti nemmeno in Germania sul rimbalzo del pil atteso per l’anno prossimo, il quale nel medio termine consentirebbe all’economia di recuperare solo parzialmente le perdite accusate in piena crisi. Per concludere, non è la deflazione in sé che dobbiamo temere, quanto le cause che la determinerebbero.

Come scampare a crisi e deflazione?

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