L’inflazione a maggio in Italia è salita al 6,9%, il dato più alto dal 1986. Una pessima notizia per i lavoratori dipendenti e i pensionati, cioè i percettori di redditi fissi. Gli stipendi italiani stanno perdendo potere d’acquisto a ritmi che non si vedevano da svariati decenni. Ma qualche buona notizia c’è. Dal 2023 le pensioni dovranno essere indicizzate all’inflazione di quest’anno, per cui gli assegni subiranno certamente aumenti consistenti. E anche i futuri pensionati potranno almeno in parte essere compensati per questa fase loro avversa: i contributi INPS versati saranno rivalutati in base a quello che già si prospetta essere come il tasso di capitalizzazione più elevato dell’ultimo decennio.

Cosa accade ai versamenti previdenziali dei lavoratori

Per capire di cosa parliamo, dobbiamo fare un passo indietro. I contributi che mensilmente versiamo all’ente di previdenza finiscono virtualmente in un fondo, che si chiama “montante”. Esso è annualmente rivalutato secondo il tasso di crescita medio del PIL nominale nell’ultimo quinquennio. Ad esempio, per le pensioni erogate a partire dal 2022, si prendono tutti i contributi INPS versati entro il 31 dicembre 2020 e li si rivaluta per il tasso di capitalizzazione del quinquennio 2016-2020. A questo montante si sommano chiaramente anche i contributi versati successivamente e che non saranno rivalutati.

Può capitare, come quest’anno, che il PIL nominale nel quinquennio considerato sia risultato non in crescita, ma in calo. Tuttavia, grazie a una legge prevista già nel 2015, il tasso di capitalizzazione non scenderà ugualmente sotto 1, per cui i contributi INPS non subiranno alcuna svalutazione. Nel 2023, avverrà la rivalutazione dei contributi INPS versati al 31 dicembre 2021. Sulla base del PIL nominale nel quinquennio 2017-2021, ci aspettiamo un tasso dello 0,94%. Dal 2024, invece, toccherà ai contributi INPS versati al 31 dicembre 2022 e rivalutati secondo l’andamento del PIL nominale nel quinquennio 2018-2022.

Previsioni su rivalutazione contributi INPS

Ora, siamo ancora neppure a metà dell’anno e fare previsioni su quale possa essere il PIL di fine 2022 non sarebbe facile.

Tuttavia, con un’inflazione acquisita al 5,7% (a rigore, il deflatore è un’altra cosa) e un tasso di crescita acquisito al 2,6%, possiamo immaginare che esso si porti in area 1.900 miliardi di euro, un po’ di più di quanto stimato dal governo Draghi con il DEF. Con questi numeri, il tasso di crescita medio annuo nel quinquennio 2018-2022 sarà stato di circa l’1,9%, il più elevato dal 2010. Nell’ultimo decennio, infatti, oltre alla bassa crescita c’è stata anche un’inflazione media dell’1%.

Basta questo per fare contenti i lavoratori italiani? Si tratta semplicemente di indicizzare i contributi previdenziali all’inflazione, così come avviene con le pensioni. Dunque, il potere d’acquisto in sé non cresce per i pensionati e il valore reale dei contributi INPS dipende non dall’andamento dell’inflazione, pur interamente recuperata, bensì dalla crescita economica dell’Italia. Le buone notizie si spera che arrivino nei prossimi anni proprio a seguito dell’accelerazione del tasso di crescita del PIL, ammesso che ciò avvenga.

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