Governo e sindacati torneranno a vedersi oggi per discutere sulla riforma delle pensioni. L’incontro si sarebbe dovuto tenere la scorsa settimana, ma le parti hanno concordato un rinvio per affinare le rispettive posizioni. Sulla base di quanto ha spiegato il premier Mario Draghi nel mese di dicembre, il punto fermo irrinunciabile per l’esecutivo sarà il mantenimento della sostenibilità previdenziale. In altre parole, la flessibilità in uscita ai lavoratori sarà garantita a patto che non minacci i conti dell’INPS.

La riforma delle pensioni dovrebbe essere collegata alla legge di bilancio per il 2023. Questo significa che un accordo dovrebbe trovarsi entro la fine di settembre, al più tardi entro metà ottobre. A fine anno, infatti, scade quota 102, la norma transitoria che consente ai lavoratori di andare in pensione con 64 anni di età e 38 anni di contributi. Una versione più rigida di quota 100, che tra il 2019 e il 2021 ha consentito l’accesso all’assegno, in via sperimentale, con rispettivamente 62 e 38 anni.

Avanza l’ipotesi di Opzione Tutti: in pensione a non meno di 63-64 anni di età, cioè in anticipo fino a 3-4 anni rispetto ai 67 dell’età ufficiale. In cambio, il calcolo dell’assegno dovrà avvenire interamente con il metodo contributivo. In alternativa, ci sarebbe un taglio dell’assegno per ogni mese di anticipo del pensionamento. I sindacati stanno puntando a una riforma delle pensioni meno punitiva per le categorie più deboli, tra cui cui coloro che svolgono lavori gravosi e/o che abbiano iniziato a lavorare in età molto giovane.

Riforma pensioni e bassa occupazione

Si parlerà anche di giovani e donne, le categorie in futuro più esposte al rischio di bassi assegni, a causa di carriere discontinue e contratti atipici. Un tema non sarà affrontato, pur essendo il più importante per coniugare sostenibilità e flessibilità. Esso riguarda il necessario aumento dell’occupazione.

I dati sono drammatici già oggi e lo diventeranno ancora di più nei prossimi decenni. Allo stato attuale, abbiamo 23 milioni di lavoratori (dipendenti privati, pubblici e autonomi) che pagano l’assegno a 16 milioni di pensionati. Nel 2040, questi ultimi saliranno a 20 milioni. Se volessimo mantenere almeno inalterato il rapporto lavoratori/pensionati, dovremmo far tendere i primi a circa 29 milioni, 6 in più di oggi.

Risulta molto difficile immaginare che l’Italia riesca, pur nel lungo periodo, ad agganciare gli attuali livelli di occupazione della Germania. Eppure, sarebbe l’unica soluzione possibile per mantenere un sistema previdenziale che sia al contempo stabile e sufficientemente flessibile. Questa è la parte difficile del dibattito. Una riforma delle pensioni, quale che sia, si farà o a debito o a saldi invariati. Potenziare l’occupazione, invece, richiede politiche lungimiranti e riforme di sistema che riguardino tassazione, ammortizzatori sociali, qualità della spesa pubblica, investimenti infrastrutturali, istruzione e formazione continua, ristrutturazione dei processi aziendali. Troppo complicato per una classe politica che spera di offrire risposte con un tweet e in quattro e quattr’otto. Infatti, siamo qui a parlarne da decenni.

[email protected]