A giorni nascerà il nuovo governo guidato da Giorgia Meloni, primo premier donna nella storia d’Italia. La congiuntura è sfortunatissima, dato che l’Italia si trova ad affrontare la crisi dell’energia, l’inflazione alle stelle, spread alto, rialzo dei tassi d’interesse, recessione economica in vista e una guerra nel cuore dell’Europa. Gli occhi di molti sono puntati sulla possibile riforma delle pensioni. Il leader della Lega, Matteo Salvini, la reclama a gran voce per evitare il ritorno alla legge Fornero.

Partiamo subito con un chiarimento: la legge Fornero esiste ed è in vigore dal 2012. Semmai è stata accompagnata quasi sin da subito da numerose misure volte a introdurre elementi di flessibilità a favore dei lavoratori.

A fine anno, scade quota 102. Essa consente ad oggi ai lavoratori di andare in pensione con almeno 64 anni di età e 38 anni di contributi. Segue quota 100, rimasta in vigore per il triennio 2019-2021 e grazie alla quale i requisiti erano rispettivamente di 62 e 38 anni. Quasi certamente non sarà prorogato il sistema delle quote, che finisce per gravare eccessivamente sui conti pubblici.

Riforma delle pensioni, Lega vuole quota 41

Salvini propone quota 41, che a dispetto del nome non sarebbe affatto una quota, bensì consisterebbe nel consentire ai lavoratori di andare in pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica. Il requisito risulta essere inferiore ai 42 anni e 10 mesi fissati per gli uomini e ai 41 anno e 10 mesi per le donne fissata proprio dalle legge Fornero per la pensione anticipata. Volendo, si tratterebbe di una flessibilità accettabile.

Realisticamente, un lavoratore non riuscirebbe ad andare in pensione con 41 anni di contributi prima dei 60 anni di età. E, comunque, lo farebbe perdendo una parte dell’assegno per effetto dei coefficienti di trasformazione legati all’età anagrafica. Per capirci, attualmente lasciare il lavoro a 60 anni, anziché ai 67 previsti dall’età pensionabile ufficiale, comporta una perdita del 23,5% per la quota contributiva.

La penalizzazione è implicita nel calcolo dell’assegno.

Il problema è che il sistema previdenziale italiano è considerato poco sostenibile. Il Mercer Cfa Institute Pension Index ci colloca al 32° posto su 44. Davanti a noi tutte le grandi economie europee: Regno Unito (10°), Germania (17°), Francia (22°) e Spagna (26°). Islanda, Olanda e Danimarca primeggiano nel mondo: hanno pensioni adeguate per vivere, trasparenti nei meccanismi e sostenibili nel tempo. L’Italia va abbastanza bene con i primi due requisiti, non con il terzo.

Bassa occupazione spada di Damocle sull’Italia

Qualsivoglia riforma delle pensioni deve passare per questi numeri. Spendiamo già oggi circa il 16% del PIL in pensioni, la seconda più alta percentuale in Europa dopo la Grecia. E abbiamo tra i più bassi tassi di occupazione dell’area OCSE, cioè dei paesi avanzati. Su 100 persone di età compresa tra 15 e 64 anni, appena 60 risultano occupate, con percentuali che crollano fin quasi il 40% in certe regioni del Sud. La media europea sfiora il 70%. In Germania si supera il 76%. In sintesi, abbiamo troppi pensionati e pochi lavoratori. E poiché gli assegni dei primi sono pagati dai contributi versati dai secondi, questo è un problema.

Parlare di flessibilità per avanzare la proposta di una riforma delle pensioni non è lesa maestà. Ci sono centinaia di migliaia di lavoratori che effettivamente vorrebbero andare in pensione per l’impossibilità di continuare a svolgere lavori fisicamente gravosi. Così come risulta difficile per un over 60 oggi trovare un nuovo lavoro nel caso rimanga disoccupato. Tuttavia, non c’è flessibilità possibile senza crescita dell’occupazione. Dobbiamo necessariamente aumentare il numero di chi lavora e far sì che percepiscano redditi maggiori, sui quali versino contributi più alti e magari che consentano a una più vasta platea di aderire a una qualche forma di previdenza complementare.

In Italia, parliamo di flessibilità senza occuparci delle condizioni che possano renderla sostenibile nel tempo.

I redditi sono fermi da decenni, anzi risultano in termini reali persino in calo negli ultimi 30 anni. Allo stesso tempo, ci sono pochi lavoratori e molti di essi tra l’altro con contratti atipici che nulla hanno a che vedere con la sacrosanta flessibilità del mercato del lavoro. Trattasi perlopiù di scappatoie legali al contratto a tempo indeterminato. Con la conseguenza che non versano contributi (o ne versano pochi) per pagare le pensioni oggi e quelle proprie future. Insomma, un sistema che non si regge in piedi. Prima di una riforma delle pensioni serve rivoltare l’economia italiana come un calzino.

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