Aldilà della querelle al Senato, che lo ha visto contrapporsi per la seconda volta in 100 giorni in Aula con il suo ex ministro Matteo Salvini, il premier Giuseppe Conte dovrebbe aver capito che sulla riforma del Fondo salva-stati non dispone di una maggioranza. E aggiungiamo, per fortuna. Fosse stato per lui e il suo allegro ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, l’Italia avrebbe votato a favore incondizionatamente, quasi per cieca fiducia nelle decisioni prese dai capi di stato e di governo nei consessi europei.

L'”avvocato del popolo” non ha fatto ancora in tempo ad imparare che la sua funzione sarebbe di difendere l’interesse nazionale quando viene convocato a una qualche riunione a Bruxelles, non di mostrarsi accondiscendente con la cancelliera o il presidente francese.

Riforma Fondo salva-stati, ecco perché Conte non può dire di no a Francia e Germania

E di ragioni per rispedire al mittente la riforma del Fondo salva-stati o MES ve ne sono parecchie. Ad iniziare dalla subordinazione degli aiuti all’accettazione di un piano di austerità vincolante; non già in quanto errato, bensì per la beffa che s’insidia dietro questo criterio apparentemente più che condivisibile, vale a dire di tenere l’Italia sotto ricatto indefinitamente, nonostante siamo il grande contribuente del fondo medesimo a non avere mai preso un solo centesimo per salvare le nostre banche o mettere in sicurezza i nostri conti pubblici e al contempo a non potervi confidare sia per le sue dimensioni eventualmente incapienti, sia per i preamboli previsti e politicamente inaccettabili.

E che dire delle Clausole di Azione Collettiva, che Germania e Francia vorrebbero ammorbidire sin dal 2022, così da rendere più facile la ristrutturazione del debito pubblico, ove necessaria? E delle limitazioni e dei disincentivi alle detenzioni di titoli di stato da parte delle banche? Tutta roba da manicomio, perché se queste previsioni diventassero norme a tutti gli effetti, l’Italia rischia di ritrovarsi senza acquirenti per i suoi BTp, i cui rendimenti esploderebbero anche per la richiesta del mercato di un premio extra con cui scontare il rischio di ristrutturazione.

Di fatto, ci dirigeremmo proprio verso quest’ultima opzione.

Banche francesi nel mirino della Germania?

Ora, che sia un obiettivo non dichiarato (esplicitamente) dalla Germania lo hanno capito anche le pietre, ma la Francia farebbe bene a rifletterci più di dieci volte prima di acconsentire che una simile riforma venga implementata. Le sue banche detengono titoli di stato italiani per 285 miliardi di euro, 5 volte tanto quelle tedesche. Di fatto, Parigi è il principale creditore estero dell’Italia. Se saltiamo noi, a ruota farebbero una brutta fine anche loro. La ristrutturazione imporrebbe perdite pesanti agli istituti francesi e alimenterebbe la sfiducia del mercato nei loro riguardi.

Riforma MES e Clausole di Azione Collettiva, ecco perché vogliono far fuori le banche italiane

E se la Germania ce l’avesse proprio con i francesi? Le banche transalpine detengono circa il 14% del nostro debito negoziabile, che aggiunto a quel circa 20% delle banche italiane porta la quota complessiva a oltre un terzo del totale, abbastanza per bloccare qualsiasi rinegoziazione dei bond. Da qui, la volontà di Berlino di spingere le banche a detenere meno titoli pubblici possibile, così da sfoltire quella percentuale di blocco e separare la Francia dall’Italia, creando un cordone di sicurezza attorno al nostro debito, prima che venga ristrutturato.

E’ questo che vogliono i banchieri francesi? Se così fosse, se la sarebbero data a gambe da tempo. Invece, continuano a investire sui BTp e a comprare assets bancario-assicurativi italiani e questo dà fastidio proprio ai tedeschi, che temono l’ingrandimento delle dimensioni finanziarie francesi, con Francoforte a inseguire e non a fare da leader nell’Europa post-Brexit.

In altre parole, la riforma del Fondo salva-stati sarebbe un “divide et impera” della Germania per continuare a spadroneggiare nel Vecchio Continente, evitando la creazione di entità franco-italiane troppo grandi nel panorama finanziario.

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