Il tavolo è stato aperto. La premier Giorgia Meloni ha incontrato l’altro ieri a Palazzo Chigi i leader delle opposizioni per avviare le trattative sulla riforma costituzionale. Il momento mediaticamente molto atteso è stato il faccia a faccia con la segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein. Niente visi tirati, molto sorrisi, ma pochissime aperture dai dem. Al termine dell’incontro, il Nazareno fa sapere di essere contrario all’elezione diretta sia del capo dello stato che del presidente del Consiglio. Comunicato apparentemente più aperturista dal Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte: “condivisa la diagnosi, non la soluzione”.

Decisamente più possibilista Carlo Calenda di Azione, disponibile a lavorare con la maggioranza.

Quaranta anni di tentativi a vuoto

Il succo è che dopo quaranta anni continuiamo a parlare di riforma costituzionale. Ci hanno provato Bettino Craxi negli anni Ottanta, Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema negli anni Novanta, ancora Silvio Berlusconi negli anni Duemila, Matteo Renzi nel 2016. Tutti hanno fallito. E prima di entrare a Palazzo Chigi, Schlein faceva sapere che, a suo avviso, la discussione non rientra tra le priorità del Paese. Invece, Meloni l’ha definita “la madre di tutte le riforme”.

Per il cittadino comune, alle prese con il caro bollette, l’inflazione in doppia cifra al supermercato, bassi stipendi, scarse opportunità lavorative, allarme sicurezza nelle città e tante altre inquietudini quotidiane, la riforma costituzionale non compare di certo in cima ai suoi pensieri. La classe politica avverte, invece, il bisogno di aggiornare la Carta, perché ne conosce da dentro il palazzo le carenze strutturali che impediscono di governare bene e a lungo. Solo che ciascun partito coltiva il proprio orticello. A parte le resistenze di tipo ideologico, che nel PD tendono ad essere fortissime.

Cosa intendiamo per riforma costituzionale? Lo ha spiegato bene il ministro alle Riforme, Maria Elisabetta Alberti Casellati, quando ha affermato che dalla nascita della Repubblica ci sono stati 68 governi.

In media, ciascuno è rimasto in carica per 14 mesi. Vi proponiamo un solo confronto, con la Germania durante il lungo “regno” di Angela Merkel tra il 2005 e il 2021. Sedici anni come capo dell’esecutivo sono tanti ovunque. Tuttavia, l’ex cancelleria dovette stringere la mano a ben otto premier italiani diversi. In un caso – Silvio Berlusconi – ci fu un ritorno, altrimenti sarebbero stati nove.

Riforma costituzionale serve anche a economia italiana

Una nazione così (non) governata è priva di credibilità all’estero. Nessuno prende in considerazione le posizioni di Roma, perché sa che potranno essere riviste dopo pochi mesi o qualche anno con l’ennesimo cambio di governo. L’instabilità politica, poi, crea da sempre enormi problemi di scarsa lungimiranza. Un governo non va oltre il proprio naso, sapendo che se facesse qualche riforma seria e all’impatto impopolare, a raccoglierne i benefici sarebbero quasi certamente i successori. Dunque, i problemi si trascinano da decenni e nessuno li risolve mai credibilmente.

La riforma costituzionale serve per riscrivere una Carta viziata sin dall’origine dal pregiudizio nei confronti di un assetto istituzionale stabile. I padri costituenti optarono per una formula parlamentarista così spinta, che nei fatti non esiste in alcun paese al mondo. L’elezione diretta del premier è francamente una soluzione quasi sconosciuta nel mondo. La adotta Israele, mentre è l’elezione del presidente della Repubblica ad essere più diffusa. Caso esemplare gli Stati Uniti d’America. Ma anche la Francia dagli anni Cinquanta, sebbene lì il capo del governo sia una figura a sé.

Il centro-destra è stato sempre favorevole al presidenzialismo, cioè l’elezione diretta del capo dello stato. La sinistra è fermamente contraria, salvo essersi compiaciuta nell’ultimo decennio del fatto che il Quirinale si sia ritagliato un potere di fatto sempre più pregnante nella politica italiana.

Non più solo arbitro, ma anche determinante per la formazione dei governi e per l’interlocuzione con i partner stranieri. Insomma, alla sinistra va bene che il capo dello stato conti, purché sia eletto dal Parlamento a scrutinio segreto.

Legge elettorale altra anomalia

Quale che sia la soluzione per cui opterà l’eventuale riforma costituzionale in questa legislatura, l’importante è che l’Italia diventi uno stato normale. Il modello tedesco si basa sulla sfiducia costruttiva: cancelliere mandato a casa dal Bundestag solo se questi ha già pronto un sostituto. Soprattutto, il cancelliere oscura del tutto la figura del presidente della Repubblica federale. Peccato solo che la Germania non abbia una buona legge elettorale, tant’è che i partiti degli schieramenti avversari sono stati costretti ad accordarsi tra di loro per ben quattro volte nelle ultime cinque legislature. Solo tra il 2009 e il 2013 vi fu una formula di alleanze “naturale”, tra conservatori e liberali.

Anche la legge elettorale è un’anomalia italiana. Modificata ad ogni elezione in base ai sondaggi del momento. Non accade neppure nelle “democrature”, dove perlomeno c’è attenzione alle forme. Il risultato è che quasi nessun elettore da decenni conosce più chi siano i deputati e i senatori del proprio collegio. Inserire la legge elettorale nella riforma costituzionale non sarebbe un male. Una volta per tutte i partiti sarebbero costretti a scegliere un metodo di rinnovo delle Camere. Solo in una cornice ordinata sarebbero possibili le riforme che interessano il vissuto quotidiano dei cittadini e il rilancio dell’Italia ai tavoli internazionali.

Guardando alla statistica, anche questa legislatura rischia di fallire sulla riforma costituzionale. Il PD non vorrà mai far intestare al centro-destra meloniano la riscrittura della Carta. Con le altre opposizioni non sarà più semplice dialogare, perché ciascun gruppo pretenderà laute compensazioni che ne garantiscano la sopravvivenza alle urne indipendentemente dai consensi. Tutti guardano al proprio interesse, nessuno sembra realmente intento a fare dell’Italia un paese come tutti gli altri nel mondo occidentale.

Perché in fondo nel caos tutti possono avere spazi. Se chi vince, governa e chi perde, fa per cinque anni l’opposizione, i margini per inciuciare quasi scompaiono.

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