Dopo avere perso la battaglia sul proprio nome nel simbolo del Partito Democratico alle elezioni europee, la segretaria Elly Schlein ha deciso di accendere ulteriormente gli animi al Nazareno. Nel fine settimana ha annunciato che parteciperà con la propria adesione alla raccolta delle firme della Cgil per indire un referendum contro il Jobs Act. Insomma, da qualche parte ha inteso ugualmente rifilare il proprio nome. Una scelta profondamente divisiva, anche perché non è stata concordata con il gruppo dirigente del PD.

Immediata la reazione dei “riformisti”, che hanno bocciato l’iniziativa. L’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, guida il fronte dei contrari. La senatrice Simona Malpezzi definisce “un errore” la scelta della segretaria e il figlio del governatore campano, nonché coordinatore dell’area Bonaccini, Piero De Luca, ci ha tenuto a fare sapere che egli non firmerà.

Referendum Jobs Act, Renzi all’attacco

Schlein ha giustificato la sua scelta con il fatto che nell’inverno dello scorso anno vinse le primarie tra l’altro anche invocando un referendum contro il Jobs Act. Si tratta della riforma del lavoro varata dall’allora governo di Matteo Renzi, cioè dallo stesso PD. Ed è questo che imbarazza oltremodo il Nazareno. La segretaria del PD va a firmare per l’abrogazione di una delle leggi più significative votate nell’ultimo decennio dal suo stesso partito. Un paradosso che ha notato niente di meno che il fautore di quella riforma, oggi a capo di un partito scissionista. “Noi siamo dalla parte del lavoro e loro dei sussidi. Cosa ci fanno ancora nel PD i riformisti?” ha tuonato l’ex premier.

Schlein stretta tra Conte e riformisti

La scelta di Schlein è stata forse una mossa obbligata per non essere scavalcata a sinistra da Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle. La segretaria teme di perdere appeal nell’area progressista e sa che già non ha la stima dei riformisti.

Tanto vale fare la dura e pura per raccattare quel consenso necessario per superare il test delle europee. Al diavolo la coerenza! Il referendum contro il Jobs Act serve anche sul piano mediatico per raccontare agli elettori che il PD di oggi è altra cosa rispetto a quel che è stato negli anni passati. Del resto, già in piena campagna elettorale fu Enrico Letta nel 2022 ad avere attaccato la riforma.

Perché a sinistra raccolgono le firme per celebrare il referendum contro l’odiato Jobs Act? Si tratta di una legge che ha cancellato l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, un simbolo inattaccabile per il mondo sindacale. Lo stesso che, però, non aprì bocca quando la riforma venne approvata dal centro-sinistra. Al tempo fu tutta una corsa per ingraziarsi il neo-premier fiorentino, scaricato come un sacco dell’immondizia all’indomani dal referendum costituzionale perduto.

Numeri dell’occupazione dopo Jobs Act

A sinistra il Jobs Act è accusato di avere alimentato la precarietà del lavoro con la creazione di posti di lavoro perlopiù di breve durata. Ma è davvero così? I dati Istat ci dicono che a marzo l’occupazione italiana è salita al nuovo record del 62,1%, pari a 23 milioni 849 mila unità. Nel marzo del 2015, mese in cui entrò in vigore la riforma con tanto di decontribuzione per i neoassunti, gli occupati furono 22 milioni 13 mila. Dunque, c’è stata nel frattempo una crescita di 1 milione 836 mila occupati. Di questi, 1 milione 650 mila risultano essere con contratto a tempo indeterminato, mentre i contratti a termine sono saliti di 519 mila e le partite iva sono diminuite di 333 mila unità. Tra queste ultime vi sono anche i falsi contratti di lavoro subordinato, mascherati da lavoro autonomo per ragioni fiscali-contributive e normative.

I numeri ci dicono, insomma, che il Jobs Act non ha affatto aumentato la precarietà.

Sta accadendo da anni proprio il contrario. I posti di lavoro che si creano sono perlopiù stabili. Altra cosa è la crescita delle retribuzioni, che effettivamente rimane tra le più basse, se non la più bassa, in Europa. Ma questo non ha certo a che fare con la riforma del decennio passato. Anzi, sarebbe andata probabilmente molto peggio con le vecchie regole più rigide per le assunzioni e i licenziamenti. Le imprese avrebbero assunto meno lavoratori o lo avrebbero fatto con contratti precari. Immaginatevi quali sarebbero stati gli stipendi.

Sindacato farsesco su lavoro e pensioni

Del Jobs Act si potrebbe indire un referendum per il cambio del nome. Una banalità figlia del renzismo obamiano. Per il resto si trattò del tentativo, non del tutto riuscito alla destra, di flessibilizzare il mercato del lavoro per stimolare l’occupazione. Soprattutto, viene da chiedersi perché mai il sindacato si accorga solo adesso eventualmente dei presunti danni provocati ai lavoratori. Analogo il ragionamento sulla legge Fornero, attaccata con un decennio di ritardo, quando al governo non ci sono più i partiti “amici” che la votarono. Insomma, politica sulla pelle dei lavoratori.

Referendum Jobs Act esplosivo per PD

Ma con questo annuncio Schlein rischia di avere messo una pietra tombale sul “campo largo”, a meno che con esso non intenda una semplice alleanza con Conte. I centristi hanno ulteriori argomenti per stare alla larga dal PD. Renzi e Carlo Calenda non accetterebbero mai di inseguire la segretaria su istanze così progressiste. Se le europee andassero male, i riformisti ne approfitterebbero per cercare di rimpiazzare Schlein con uno di loro. Se Schlein rimanesse in sella, invece, si prospetta o una scissione o una dialettica interna talmente vivace da portare il partito allo sbaraglio. Ricordiamoci che Schlein non controlla i gruppi parlamentari, indicati dalla precedente segreteria. Il referendum sul Jobs Act ha tutta l’aria di essere un mozzicone di sigaretta gettato a pochi centimetri dalla polvere da sparo.

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