Il premier Juha Sipila può essere considerato il Silvio Berlusconi di Finlandia, ma oggi come oggi anche come il Donald Trump negli USA. Da imprenditore, l’uomo è diventato premier del paese scandinavo nel maggio dello scorso anno, ponendosi a capo di un governo di centro-destra. Uno dei suoi crucci è la riforma dell’assistenza sociale, che concili due esigenze apparentemente contrapposte: la sburocratizzazione dell’apparato statale e il mantenimento dei livelli di welfare state. Come? Attraverso il reddito di cittadinanza, come lo chiameremmo in Italia di questi tempi, che qui prende il nome di “reddito di base” dall’inglese “basic income”.

Per questo, sta per iniziare un esperimento, che vedrà coinvolte 2.000 famiglie con almeno un disoccupato, non importa a quale categoria lavorativa di appartenenza. I beneficiari sono stati estratti a sorte nella cittadina di Oulu, che si trova al centro esatto della Finlandia. Riceveranno un assegno ogni mese senza alcuna condizione e senza gravami burocratici. Entro certi limiti, potranno anche guadagnare qualcosa extra. (Leggi anche: Rivoluzione in Finlandia: 800 euro a testa, ma fine dell’assistenza sociale)

Obiettivo: ridurre l’apparato pubblico

L’obiettivo del programma della durata biennale è di verificare cosa accade a un individuo, se è consapevole di poter contare di un reddito basilare, che lavori o meno. Cercherà lavoro? Frequenterà corsi professionali o di studio? Si adagerà?

Se l’esperimento portasse alla conclusione, che un reddito di cittadinanza non avrebbe alcun effetto disincentivante sul lavoro, Sipila lo estenderebbe – almeno queste sarebbero le sue intenzioni – a tutti i cittadini finlandesi, puntando a sostituire servizi pubblici con il cash, ovvero lo stato non ti garantisce più scuola, sanità e altri servizi essenziali, ma ti fornisce direttamente il denaro per pagartelo da solo. In questo modo, l’assistenza sociale sarebbe conservata, ma i servizi pubblici funzionerebbero secondo meccanismi di mercato a tutti gli effetti, quindi, sarebbero efficienti.

 

 

 

 

I fondamenti teorici

Ma quali potrebbero essere i risultati di tale esperimento? Va detto, che una cosa è garantire all’individuo un reddito per due anni, un’altra è metterlo dinnanzi alla consapevolezza che potrebbe disporne di uno minimo vita natural durante. Ora, la teoria economica ci dice che gli effetti di un reddito di base sulla propensione al lavoro del beneficiario variano, a seconda che tale entrata sia legata o meno alla condizione lavorativa.

Se io so di poter contare, per ipotesi, su un reddito di 1.000 euro al mese, a patto di non lavorare, non sarà certamente mio interesse trovare un’occupazione con salario mensile inferiore o attorno ai 1.000 euro, perché altrimenti baratterei per nulla il mio tempo libero con il lavoro. Magari, inizierei ad accettare solo lavori con retribuzioni ben più elevate ai 1.000 euro garantiti, sempre di ambire a un livello di vita più alto. Poiché, poniamo, i lavori pagati sotto i 1.000 euro mensili (il livello del cosiddetto “salario di riserva”) sono quelli poco qualificati, ciò ci porta a presumere che il reddito di cittadinanza disincentivi alla creazione di lavori a basso reddito e poco qualificati e dovrebbe incentivare quelli più qualificati.

Migliora la formazione?

Viceversa, se so di poter contare su 1.000 euro al mese, indipendentemente dal fatto che lavori o meno, le mie decisioni sulla ricerca di un lavoro non dovrebbero essere influenzate, perché le mie entrate minime fisse verrebbero garantite, anche se accettassi un’offerta di lavoro a basso reddito.

In teoria, poi, il beneficiario dell’assegno potrebbe approfittarne per migliorare la propria situazione educativa, frequentando corsi di formazione o scolastici, al fine di potere accedere a posizioni lavorative più qualificate e, quindi, meglio retribuite. I teorici del monetarismo alla Milton Friedman hanno proposto sin dagli anni Sessanta una variante del reddito di cittadinanza, ovvero l’imposta negativa: al di sotto di un certo reddito, anziché pagare le tasse, il contribuente riceverebbe un pagamento dallo stato, pari all’aliquota fiscale sulla quota di reddito che gli manca per arrivare al minimo fissato.

 

 

 

 

La proposta del Movimento 5 Stelle

Quando dalla teoria si passa alla pratica, le cose potrebbero cambiare. Per questo sarà interessante verificare i risultati di questo pur breve esperimento. Diverse le incognite: davvero chi gode di un assegno facile cercherà lavoro? E se nessuno accettasse più posti di lavoro pochi qualificati, questi non finirebbero per essere meglio retribuiti (legge della domanda e dell’offerta), ma con il risultato di aumentare il costo della vita e di ridurre il valore reale del reddito di cittadinanza o di base, che dir si voglia?

In Svizzera, di recente è stato bocciato per referendum un tentativo di istituire un simile trattamento per i disoccupati, mentre un incubatore della Silicon Valley distribuirà assegni mensili tra 1.000 e 2.000 dollari a diverse famiglie della zona. In Italia, il Movimento 5 Stelle si è fatto portavoce da tempo di una tale proposta, anche se a condizione che il beneficiario non lavori. Paradossalmente, il trattamento invocato dai grillini, sostitutivo di qualsivoglia altro beneficio assistenziale, finirebbe per disincentivare al lavoro quanti ne beneficerebbero, in un’economia italiana già caratterizzata da bassi livelli occupazionali. (Leggi anche: Reddito cittadinanza, ecco la proposta dell’M5S)