La fuga dei cervelli dall’Italia continua a far discutere. Sono sempre di più i giovani che decidono di lasciare il paese per trovare fortuna altrove. Solo nel 2018 sono partite 117mila persone, di cui 30mila laureati. Una fuga che riguarda soprattutto il Sud, dove il mercato del lavoro raramente offre occasioni.

Quanto costa la fuga dei cervelli

Secondo una ricerca di Roma Business School, che ha provato anche a fornire una ricetta per il rientro dei giovani laureati in Italia, negli ultimi dieci anni sono stati 182mila i ragazzi che hanno fatto le valigie per avere maggiori occasioni dove ci sono più opportunità di carriera e di retribuzione.

Il report, intitolato Il malessere demografico in Italia, realizzato dal ricercatore Valerio Mancini, mette in evidenza come un famiglia spende 165mila euro per crescere ed educare un figlio fino a 25 anni di età, a cui aggiungere 100mila euro messi dallo Stato per la scuola. Tutto ciò significa una perdita di investimenti di 30 miliardi di euro all’anno, che andrebbe ad avvantaggiare gli altri Paesi Europei.

I Paesi più quotati

I paesi più quotati per la fuga di cervelli sono il Regno Unito, la Germania, la Francia, la Svizzera e la Spagna ma anche Brasile, Usa, Canada e Australia. Nel report si legge che:

“Quasi tre cittadini italiani su quattro che si sono trasferiti all’estero hanno 25 anni o più: sono poco più di 84 mila (72% del totale degli espatriati); di essi, il 32% sono laureati. Rispetto al 2009 l’aumento degli espatri di laureati è più evidente tra le donne (+10 punti percentuali) che tra gli uomini (+7%)”

In particolare tra i ruoli più richiesti spiccano quelli di digital marketing, energy manager, data scientist e figure legate al legal tech.

Per quanto riguarda le zone da dove i giovani “scappano” il Sud si conferma al primo posto seguito dal Nord mentre Roma, Milano, Napoli, Treviso, Brescia e Palermo sono le città con più partenze.

Basilicata, Molise, Calabria e Liguria le più colpite.

 

Per evitare le partenze di risorse dal nostro paese, il report suggerisce di puntare a programmi di formazione tra università e imprese, rafforzamento dell’e-learning e più programmi universitari in lingua inglese, senza contare un sistema di defiscalizzazione differenziato in base alla qualità delle posizioni.

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