L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sarebbe questione di tempo e il conto alla rovescia è scattato con il riconoscimento delle due repubbliche separatiste russofone di Lugansk e Doneck della regione del Donbass da parte di Mosca. Il presidente Vladimir Putin si è rifatto a ragioni storiche e culturali per giustificare il suo annuncio in diretta TV. Di certo, con questa mossa punta almeno a ritardare il processo di allargamento ad est della NATO, che il Cremlino vede come una minaccia per l’integrità territoriale russa.

C’è del vero in questa ricostruzione dei fatti, ma l’obiettivo finale del nuovo “zar” sarebbe di rifare l’Urss, l’impero sovietico sfaldatosi poco più di trenta anni fa sotto il peso della sua inefficienza economica e della voglia di cambiamento e libertà dei suoi cittadini.

L’ultimo segretario generale del PCUS, Mikhail Gorbacev, arrivato al potere nel 1985, aveva l’ambizione di rinnovare l’Urss per consentirle di tenere testa alle potenze occidentali. Le sue riforme (Perestrojka) all’insegna della Glasnost (trasparenza) finirono con lo smantellare il sistema comunista e portarono velocemente alla disintegrazione dell’Urss, con l’Ucraina a guidare il fronte delle repubbliche indipendentiste. Il 25 dicembre del 1991, Gorbacev si vide costretto, suo malgrado, di firmare il decreto di scioglimento dell’Unione Sovietica dopo 74 anni dalla sua nascita.

La fine dell’Urss fu uno choc nazionale per il popolo russo. Da superpotenza concorrente degli USA, in brevissimo tempo la Federazione Russa rimase un’economia regionale marginale e in nettissimo declino. Pensate che tra il 1991 e il 1998, il suo PIL quasi si dimezzò (-42,5%) e agli inizi degli anni Novanta l’inflazione arrivò fino al 2.500%. Il cambio implose miserevolmente: da 63 copechi contro un dollaro, nel giro di pochi mesi crollò a 160 rubli contro un dollaro. La povertà galoppò in ogni angolo dell’ex impero comunista, mentre un piccolo gruppo di oligarchi contigui al potere politico si arricchì, comprando a prezzi di saldo interi pezzi dell’industria post-sovietica.

Economia russa dal default alla rinascita

Nel 1998, la Russia visse pure l’umiliazione del default. Le cose iniziarono a cambiare solo con la fine del decennio, anzi con la mezzanotte tra il 31 dicembre 1999 e l’1 gennaio 2000, quando il presidente Boris Eltsin trasferì il potere all’allora premier Putin, ex funzionario del Kgb che aveva lavorato nella ex DDR e che con la caduta del Muro di Berlino era stato richiamato in patria. Era finito a fare il tassista di notte per sbarcare il lunario. Meno di decennio più tardi, era già l’uomo più potente di Russia.

Vuoi per la congiuntura favorevole al petrolio, vuoi anche per la capacità di Putin di ristabilire l’ordine in uno stato di fatto caduto nell’anarchia dopo il comunismo, l’economia russa iniziò a riprendersi dagli abissi in cui era precipitata negli anni Novanta. Già nel 2007, il PIL era risalito sopra i livelli del 1991. Lo scorso anno, risultava del 27% più grande di trenta anni prima. Il PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto si attestava a 27.500 dollari, l’80% dei livelli italiani. Insomma, la Russia non sarà una grande economia, ma con un PIL di oltre 1.500 miliardi di dollari può considerarsi a tutti gli effetti una potenza regionale.

A Putin non basta. Risolti i grossi problemi ereditati dalla caduta dell’Urss, adesso cerca di ripristinarne la vocazione imperiale, cercando di assoggettare a Mosca almeno tre delle repubbliche resesi indipendenti: Georgia, Bielorussia e Ucraina. I fatti avvenuti nel Kazakistan a inizio anno dimostrano quanto il Cremlino non rinunci all’idea di esercitare il suo potere in tutta la zona d’influenza che corrisponde grosso modo alla vecchia Urss. Certo, se confrontiamo le grandezze economiche russe con quelle americane, ci viene da sorridere all’idea che Putin voglia competere con la superpotenza mondiale.

Tuttavia, sul piano militare può farlo, detenendo ancora più testate nucleari.

La nuova Urss di Putin

Quale nuova Urss sarebbe? Non certo quella di stampo sovietico implosa nel 1991, ma neppure una liberaldemocrazia all’occidentale. L’economia russa odierna riconosce il libero mercato e la proprietà privata, ma nella classifica sul grado di libertà economica di Heritage Foundation figura solo 113-esima su 177 stati monitorati. Di fatto, si tratta di un sistema “perlopiù non libero”, in cui la mano dello stato condiziona gli attori economici e ne indirizza le fortune. Figure sgradite al Cremlino non possono fare carriera, finiscono in carcere o in esilio o spesso avvelenate. La democrazia rappresentativa è solamente fittizia. Putin succede a sé stesso da oltre un ventennio senza che nessun’altra figura di spicco possa realmente competere.

A moltissimi russi, tuttavia, queste criticità importano poco e niente. Non hanno mai conosciuto la vera democrazia nella loro storia, né il capitalismo dell’Occidente. Messisi alle spalle gli anni bui di caos e miseria, anche per questo sognano il ritorno ai vecchi fasti dell’Urss, quando ebbero la dignità di superpotenza. Putin vuole lasciare in eredità un nuovo impero eurasiatico capace di ergersi a potenza globale alla pari di USA e Cina, forte dei suoi immensi giacimenti di petrolio e gas con cui può ricattare le recalcitranti nazioni vicine europee. Ha messo in conto sanzioni anche dure di USA ed Europa e se ne infischia altamente. Non sarà un embargo a dissuaderlo dalla volontà di rimettere in piedi l’Urss, cancellandone il drammatico finale umiliante di un trentennio fa.

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