Restano deboli le quotazioni del petrolio, con il prezzo del Wti americano anche stamane al di sotto dei 50 dollari al barile al Nymex sul pre-mercato. E il Brent viaggia sui 56,33 dollari. Il primo ha perso il 13,5% dall’inizio del mese, il secondo quasi il 10%. Ieri, il Dipartimento dell’Energia di Washington ha stimato in rialzo di 2,5 milioni di barili le scorte USA di petrolio alla fine della scorsa settimana, di cui un aumento di 800 mila a 57,9 milioni di barili presso i serbatoi di Cushing, Oklahoma.

Il dato rafforza la convinzione del mercato che vi sia una persistente sovrapproduzione, come dimostrerebbe anche la crescita dell’offerta dei 12 paesi OPEC di 600 mila barili al giorno a giugno, rispetto al mese precedente. A trainare l’output dell’Organizzazione, che produce un terzo del greggio mondiale, sono Arabia Saudita e Iran, che dal  novembre scorso hanno accresciuto la loro offerta quotidiana di 1,6-1,7 milioni di barili. E l’Iran potrebbe esportare entro la fine del 2016 2,4 milioni di barili al giorno dagli 1,6 milioni attuali, in seguito alla firma dell’accordo nucleare con le altre potenze mondiali.   APPROFONDISCI – Il prezzo del petrolio cede ancora sulle scorte USA, gli Emirati Arabi tagliano i sussidi  

Crisi petrolifera come 30 anni fa?

A fronte di questo bagno di petrolio, la domanda tenderebbe a crescere lentamente. La Banca Mondiale stima in +1,4 milioni di barili al giorno l’aumento delle richieste per l’anno in corso (+1,5%) e in +1,2 milioni per l’anno prossimo (+1,3%), anche se per quest’anno ha innalzato le stime sulle quotazioni dai 53 dollari al barile previsti in aprile ai 57 attuali, pur sempre il 39% in meno su base annua. A questo punto, torna alla memoria la crisi del 1985-’86, quando il prezzo del greggio arrivò a crollare fin sotto i 10 dollari al barile. Esistono diverse similitudini con allora.

In primis, si usciva anche allora da un quadriennio di quotazioni relativamente alte e stabili, che avevano incentivato gli investimenti, quindi, la crescita della produzione. 30 anni fa era il Nord Europa ad approfittare dell’aumento delle quotazioni per estrarre più barili, in questi anni sono stati gli USA ad avere inondato il mercato con il loro “shale”. E anche allora fu la riunione dell’OPEC di novembre a segnalare al mercato che l’Organizzazione non avrebbe più difeso i prezzi con un taglio dell’output. Lo stesso è accaduto nel novembre dello scorso anno ed è stata sempre l’Arabia Saudita ad avere perso la pazienza, sentendosi minacciata dall’avanzare di altri produttori dentro e fuori l’OPEC.   APPROFONDISCI – Petrolio, quotazioni in calo su fattori contrastanti. Sorpresa dall’Arabia Saudita  

L’influenza dei tassi zero

La similitudine con la crisi dell’85-’86 non implica che le quotazioni debbano precipitare a quei livelli, ma semmai che il trend sarebbe simile. Lo scenario di fondo è, però, diverso. In quegli anni, l’America di Ronald Reagan si poneva alla guida di una politica monetaria restrittiva delle principali banche centrali del pianeta, in modo da contrastare gli effetti delle 2 crisi petrolifere degli anni Settanta, quando i prezzi esplosero, facendo balzare l’inflazione anche a 2 cifre. Oggi, al contrario, la Federal Reserve deve ancora avviare la stretta monetaria e non sarà seguita per un lungo periodo ancora da BCE e BoJ. Quest’ultimo aspetto non è irrilevante per il mercato del greggio. Un mercato con bassi tassi incentiva gli investimenti e le estrazioni di greggio, quindi, esacerba l’eccesso di produzione. Un motivo in più per ritenere che difficilmente entro i prossimi mesi assisteremo a un rimbalzo delle quotazioni.   APPROFONDISCI – Quotazioni del petrolio sotto i 50 dollari, ecco le cause