I dati sul mercato del lavoro non agricolo di gennaio sono stati sorprendentemente molto positivi negli Stati Uniti: +353.000 posti creati contro attese per +185.000. Il tasso di disoccupazione è rimasto al 3,7% e nell’insieme del secondo semestre dell’anno scorso è arrivata una revisione positiva di 27.000 posti. I salari sono cresciuti dello 0,6% su dicembre, il doppio delle previsioni. Su base annua, un roboante +4,5%. Unica pecca il cedimento delle ore di lavoro settimanali in media, ai minimi dalla pandemia. L’economia americana si conferma molto resiliente agli shock mondiali di questa fase e la recessione sembrerebbe ancora lontana.

Taglio dei tassi Fed meno vicino

Per questa ragione, venerdì scorso i rendimenti dei titoli di stato americani sono risaliti, scontando minori probabilità di un taglio dei tassi di interesse a marzo. La Federal Reserve era stata chiara quando per essa aveva parlato il governatore Jerome Powell in conferenza stampa: improbabile allentare la politica monetaria già dal prossimo mese. Di conseguenza, su anche lo spread tra BTp e Bund a 10 anni sopra 155 punti. Se la Fed non allenta, la Banca Centrale Europea (BCE) prenderà a sua volta più tempo per tagliare i tassi. E per l’Italia non è ufficialmente una buona notizia, dato il suo altissimo debito pubblico.

Tuttavia, non dobbiamo necessariamente accodarci agli umori del mercato seduta dopo seduta. La forza dell’economia americana, contrariamente a quanto segnalano i bond, è qualcosa di decisamente positivo per l’Italia. E’ vero che la Fed avrebbe scarse giustificazioni per iniziare a tagliare i tassi a marzo, ma del resto non è una novità. I dati di gennaio non hanno realmente scosso nessuno tra i policy maker, perché grosso modo ne confermano la sensazione che la crisi sia tutt’altro che vicina. In ogni caso, si materializzerebbe in forma di “atterraggio morbido” e non duro.

Made in Italy corre negli States

Perché l’Italia trae spunti positivi da queste cifre? Manca solo il dato di dicembre, ma per ora sappiamo che nei primi 11 mesi del 2023 le nostre esportazioni nette negli Stati Uniti sono salite a 41 miliardi di dollari, all’incirca sui 37 miliardi di euro.

Su base annua dovremmo avere chiuso in rialzo del 10% sul 2022. La nostra bilancia commerciale è tornata in attivo dopo un 2022 zavorrato dal caro energia. Il saldo si attesta sopra 20 miliardi, circa l’1% del PIL. In pratica, gli Stati Uniti hanno più che compensato da soli il segno meno che altrimenti avremmo registrato con il resto del mondo.

E’ così da anni. L’economia americana pesa per almeno la metà delle esportazioni nette italiane, le quali a loro volta consentono alla nostra economia di crescere, anche se di poco, anziché arretrare per via della debole domanda interna. I consumatori americani apprezzano il Made in Italy e comprano grazie alle retribuzioni in continua salita, ora nuovamente anche in termini reali. Con la pandemia, la capacità di acquisto dei lavoratori americani non è diminuita, malgrado un’inflazione in forte rialzo.

Economia americana punto di forza per l’Italia

Cosa c’entra con lo spread? Esso misura il premio preteso dagli investitori per acquistare titoli di stato italiani al posto di quelli tedeschi. Riflette il rischio sovrano percepito. Se il debito pubblico sale o diventa più costoso, i mercati si preoccupano e richiedono rendimenti all’Italia relativamente più alti. Tuttavia, la capacità del nostro governo di onorare i prestiti ricevuti dipende anche dalla crescita economica, cioè dalla generazione di ricchezza. E abbiamo detto che essa risulta strettamente correlata alle nostre esportazioni, tenute a galla anche in un periodo difficile dagli Stati Uniti.

In definitiva, tra avere un’economia americana più debole per scontare tassi di interesse in calo sin da marzo e un’economia americana forte e con tassi invariati fino a maggio o giugno, il secondo scenario per noi italiani risulta certamente migliore.

Siamo spesso più concentrati sugli effetti che non ad indagare sulle cause dei problemi. Lo stock cresce sì per l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate, ma anche per una dinamica del PIL stagnante, al netto del rimbalzo seguito alla pandemia. Anziché augurarci che il resto del mondo vada male per poter emettere debito a tassi più bassi, meglio se andasse così bene da consentirci di crescere e segnalare ai mercati la nostra affidabilità creditizia. Lo spread scenderebbe ugualmente, ancor prima che si scomodi la BCE.

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