Malgrado il saliscendi quotidiano, il prezzo del petrolio al barile resta altissimo e secondo Bank of America si attesterà a una media di 110 dollari quest’anno. Eppure, l’amministrazione Biden sta cercando di affrontare il tema, consapevole di quanto esso sia delicato particolarmente per gli alleati europei, privi di materie prime. E anche in vista delle elezioni di metà mandato nel novembre prossimo, gli converrebbe risolvere in fretta il problema, ora che il prezzo di un gallone di carburante negli USA è schizzato a 4 dollari, quando già storicamente la soglia dei 3 dollari è stata considerata politicamente poco sostenibile.

Fino alla presidenza Trump, un rialzo delle quotazioni così forte avrebbe spinto le compagnie petrolifere americane ad aumentare la produzione. Sotto l’attuale amministrazione, non sta avvenendo per via delle numerose regolamentazioni ambientali e dell’annunciata transizione energetica, che rende poco appetibile l’attività di perforazione di nuovi pozzi nel lungo periodo.

Il presidente Joe Biden cerca da settimane di trovare un accordo con l’Arabia Saudita, il più grande produttore e l’unica a poter far scendere significativamente il prezzo del petrolio. Ma il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) non vuole neppure sentirlo al telefono. Del resto, a differenza di quanto ci raccontiamo in Occidente, la Russia di Vladimir Putin risulterebbe tutt’altro che isolata nel mondo. Cina, India e i paesi arabi non stanno con noi. E parliamo sostanzialmente di metà degli abitanti del pianeta. Soprattutto, posseggono le materie prime.

L’Occidente paga le gaffes di Biden

I sauditi sono alleati storici degli americani nel Medio Oriente. Lo scambio in oltre mezzo secolo di partnership consiste in petrolio contro sicurezza. Negli ultimi tempi, però, le cose non stanno andando bene tra i due. In campagna elettorale, l’attuale presidente Biden definì il regno “uno stato paria” per condannare il brutale assassinio di Jamal Khashoggi, giornalista del Washington Post, il quale sarebbe stato ucciso e fatto a pezzi nell’ambasciata saudita in Turchia dopo esservi entrato per sbrigare alcune formalità burocratiche legate al suo matrimonio con una fidanzata turca.

Secondo l’intelligence americana, l’ordine di ucciderlo sarebbe partito dalle altissime sfere della monarchia saudita per sbarazzarsi di un suddito che all’estero faceva da grancassa per gli oppositori al principe ereditario. Ancora fino a qualche giorno fa, la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ribadiva l’espressione di “stato paria”. Per tutta risposta, MbS dichiarava di non curarsi delle affermazioni di Washington e ironicamente notava che Biden “ha il compito di fare gli interessi del suo paese”.

C’è di più. Sempre Biden sta trattando con l’Iran per resuscitare l’accordo sul nucleare siglato a fine 2015 dall’amministrazione Obama di cui allora era vice-presidente. Tale accordo consentì a Teheran di tornare ad esportare petrolio dopo un embargo americano di quattro anni. Tuttavia, nella primavera del 2018 l’ex presidente Donald Trump lo stracciò e l’Iran non poté nuovamente esportare petrolio. Riad è acerrimo nemico della Repubblica Islamica, vuoi per fattori religiosi (divisioni tra sunniti e sciiti), vuoi anche per diverse contrapposizioni geopolitiche nell’area, come sulla Siria e nello Yemen. In quest’ultimo, i ribelli Houthi sostenuti da Teheran attaccano non solo il governo filo-saudita, ma lo stesso regno attraverso droni. Gli USA non stanno intervenendo a sostegno di Riad, anzi Biden ha fatto uscire gli Houthi dalla lista sulle organizzazioni terroristiche in cui erano stati inseriti da Trump.

Prezzo del petrolio appeso ai sauditi

Infine, c’è che sauditi e russi sono diventati stretti alleati dopo che il prezzo del petrolio crollò nel 2014, sotto gli occhi dell’amministrazione Obama. L’OPEC, organizzazione che raggruppa una dozzina di stati petroliferi perlopiù del Golfo Persico, era diventata quasi ininfluente negli anni scorsi fino a quando Riad non pensò di coinvolgere Mosca, primo o secondo produttore mondiale di greggio, a seconda del periodo.

Pur non facendo parte dell’organizzazione, la Russia di fatto ne co-gestisce con l’Arabia Saudita la politica petrolifera, forte di un’offerta pari a circa l’11% del totale mondiale.

Nasce così l’OPEC+, di cui fanno parte anche altri stati minori esterni all’organizzazione con sede a Vienna. Grazie a questa collaborazione, negli anni il prezzo del petrolio è stato stabilizzato. Con la guerra ucraina, è tornato sopra 100 dollari al barile per la prima volta dal 2014, facendo felici gli sceicchi del golfo. Dobbiamo solo pensare che per ogni 1 dollaro in più per barile, il regno saudita incassa annualmente 3,65 miliardi. Se il prezzo del petrolio si stabilizzasse a 100 dollari quest’anno, entrerebbero nelle sue casse dollari per il 12-13% del PIL in più. Possiamo immaginare quanto i governanti dell’area siano adirati con quella testa calda di Putin per aver contribuito all’esplosione delle quotazioni internazionali.

A dire il vero, già da mesi l’OPEC+ impedisce al mercato del petrolio di riequilibrarsi velocemente. Gli stati membri si rifiutano di alzare drasticamente le rispettive estrazioni, così da mantenere elevati i prezzi. In genere, l’America è solita alzare il telefono e chiamare Riad per informarla di desiderare un prezzo del petrolio più basso. Questa volta, l’alleanza è saltata. E così, mentre la Russia devasta l’Ucraina, non esiste un contrappeso geopolitico tale da alleviare le sofferenze economiche a carico dell’Occidente. Del resto, i sauditi pretenderanno dagli americani il mancato raggiungimento di un accordo con l’Iran. E se questo accadesse, non affluirebbero sui mercati quei barili in più che si scontano con la fine dell’embargo. Riad tiene in mano il mercato mondiale e se la intende ormai più con Mosca che con Washington.

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