La decisione della cosiddetta Opec Plus di procrastinare il taglio dell’offerta di petrolio fino alla fine dell’anno ha fatto esplodere le quotazioni internazionali ai massimi da dieci mesi. Si rivede all’orizzonte la temuta soglia dei 100 dollari, che avrebbe una portata psicologica tale da infiammare ulteriormente i mercati. Il prezzo della benzina al litro supera ormai i 2 euro e, complice il contestuale crollo del cambio euro-dollaro, non possiamo escludere ulteriori rincari. Nulla che non si sia già visto.

Per l’esattezza, era l’ottobre del 1973 quando l’OPEC a guida sempre saudita impose l’embargo contro i paesi alleati di Israele, rei di avere sostenuto quest’ultimo contro gli stati arabi nella Guerra dei Sei Giorni. Al contempo, annunciava un taglio dell’offerta del 5%.

Tempus fugit

È passato mezzo secolo, di acqua sotto i ponti della geopolitica ne è passata abbondante e siamo, invece, tornati al punto di partenza. Arabia Saudita alla testa di un cartello del petrolio anti-occidentale. Stavolta, da punire ci sarebbe il sostegno di Nord America ed Europa all’Ucraina contro la Russia di Vladimir Putin.

Cosa cambia rispetto ad allora? Nel 1973, l’OPEC incideva per il 54% della produzione mondiale di petrolio. Oggi, non va oltre il 38%. Tuttavia, il cartello si è aperto negli ultimi anni a partnership con una potenza come Russia, a sua volta alla testa di stati satellite. Insieme, grosso modo ritroviamo le percentuali di 50 anni fa. Ma il cartello risulta ancora più instabile. Troppo complicato controllare nel tempo le azioni dei singoli produttori. Più il petrolio rincara e più sale la convenienza ad estrarne di più per accrescere i ricavi. Così facendo, però, i prezzi tornerebbero in calo.

Altro serio rischio a cui vanno incontro sauditi e russi consiste nell’accelerare la transizione energetica dell’Occidente. Gli Stati Uniti, infatti, sembrano essere arrivati all’apice della loro capacità produttiva.

Solo un cambio di scenario politico muterebbe le carte in tavola. Se ne parlerebbe, comunque, non prima di inizio 2025 con l’insediamento della prossima amministrazione americana.

Petrolio e PIL

Solo a titolo di raffronto, nel 1973 ogni barile di petrolio generava PIL nel mondo per meno di 230 dollari. Quest’anno, dovremmo superare i 2.800 dollari. Significa che si è di molto allentata nei decenni la dipendenza dall’oro nero. Ciò è dovuto al progresso tecnologico, oltre che alla crescita più che proporzionale dei servizi, settore che consuma minore energia dell’industria.

Infine, se l’Occidente restasse ostaggio della stagflazione, la caduta dei redditi reali finirebbe per deprimere la domanda di materie prime, petrolio incluso. Le alte quotazioni di queste settimane, dunque, sarebbero succedute da un possibile tracollo, innescando il classico ciclo “boom and bust”.

Riassumendo…

  • Ci stiamo avvicinando alla temuta soglia dei 100 dollari a barile per il petrolio. Le ricadute anche sul prezzo della benzina.
  • Con la stagflazione si verificherebbe una caduta dei redditi e una depressione della domanda di materie prime.
  • Non si possono escludere ulteriori rincari del prezzo della benzina nonostante la quotazione sia già vicinissima ai 2 euro al litro.

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