Quando mercoledì la premier Giorgia Meloni riferiva alla Camera la posizione dell’Italia in vista del Consiglio europeo nei due giorni successivi, tutti hanno notato a colpo d’occhio l’assenza dei ministri leghisti nei banchi del governo. Presente in un secondo tempo solo Giuseppe Valditara. Matteo Salvini non c’era e molti commentavano a caldo che lo sgarbo istituzionale fosse frutto della divergenza di vedute sull’invio di armi in Ucraina. Invece, i deputati della maggioranza in Aula discutevano tra loro in capannelli circa le reali motivazioni delle assenze del Carroccio: le nomine nei consigli di amministrazione (cda) delle società partecipate.

Per l’italiano medio si tratta di un argomento secondario, per non dire noioso e di scarsissimo interesse. Per i politici è vero il contrario. Al governo ci si va per “comandare” e lo si può fare solo se si ha con sé il cosiddetto “deep state”, espressione in Italia tradotta spesso con “poteri forti”. Dovete pensare che l’anno scorso, prima che il governo Draghi entrasse in crisi, l’allora maggioranza che lo sosteneva aveva preso in considerazione persino l’ipotesi di spostare in avanti la data delle elezioni politiche di quest’anno, al fine di spartirsi le nomine nei cda delle partecipate statali.

Nomine cda, criteri diversi per Meloni e Salvini

Sono 610 tra consiglieri di amministrazione e sindaci da nominare in 105 società controllate dal Ministero di economia e finanza. E arrivano a scadenza le cariche di tutte le principali big italiane: ENEL, ENI, Poste Italiane, Rai, Terna, Leonardo, ENAV, Monte Paschi di Siena, ISTAT, ecc. Parliamo del cuore del sistema industriale e finanziario tricolore, produttore di un fatturato di circa 190 miliardi di euro, poco meno del 10% del PIL. È in corso una sfida tra Meloni e Salvini per controllare quante più poltrone possibili. Nulla di inconsueto ed è anche inutile fare moralismo.

La politica, finché è messa nelle condizioni di controllare centinaia di società, vorrà sempre esercitare il suo potere di nomina.

La premier punta sul merito per rinnovare le cariche, chiaramente assegnando una percentuale elevata a Fratelli d’Italia. Salvini vorrebbe far prevalere il criterio della discontinuità. In sostanza, facce nuove per poter dire ai propri elettori che il governo di centro-destra stia rivoltando il “deep state” come un calzino. Tuttavia, esistono equilibri da rispettare e non sempre improvvisare volti nuovi sembra opportuno. Ad esempio, ENEL ed ENI si rivelano determinanti per attuare la politica energetica del governo. Servono più che mai uomini di fiducia, ma allo stesso tempo questi devono godere della rete di relazioni in Italia e all’estero per riuscire al meglio nel loro operato.

Non vi annoiamo con l’elenco del toto-nomine di queste settimane. Sappiamo che Claudio Descalzi dovrebbe essere confermato AD di ENI e Matteo Del Fante AD di Poste. Una continuità che sarebbe assicurata alle due aziende per via dei meriti conquistati sul campo dai rispettivi amministratori. Poco importa per Meloni se quelle nomine siano arrivate in passato da governi di centro-sinistra.

Centro-destra alla conquista del deep state

D’altra parte, l’esigenza di controllare il “deep state” esiste. Le partecipate statali ormai incidono per una percentuale elevata delle iscritte a Confindustria, un’organizzazione che negli ultimi anni ha propenso più a favore del centro-sinistra che non del centro-destra. Basti ricordare il “sì” della Confindustria di Vincenzo Boccia alla riforma costituzionale voluta dall’allora governo Renzi. Per non parlare della TV di stato, la cui dirigenza è ancora a stragrande maggioranza di segno politico opposto al nuovo esecutivo e che dimostra un atteggiamento tendenzialmente anti-governativo, pur attenuatosi nella programmazione ordinaria e nei TG.

Alla fine, Meloni e Salvini, così come anche Silvio Berlusconi, un accordo lo troveranno per forza di cose.

Ciascuno dei tre partiti della maggioranza vorrà pesare il più possibile nella spartizione della torta. Il loro successo elettorale futuro potrà dipendere anche dagli appoggi giusti nelle alte sfere della burocrazia e del sistema finanziario-industriale. Emblematico il caso del PD, che è riuscito a diventare un partito dell’establishment in virtù proprio del controllo di tutti i gangli del potere più che per consenso riscosso tra gli elettori. E per Fratelli d’Italia questa è l’occasione storica per uscire dal proprio recinto e “conquistare” spazi di potere impensabili fino a solo un anno fa.

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