E’ tutto pronto alla BCE per il primo rialzo dei tassi dopo ben undici anni. Sia i consiglieri esecutivi che i governatori del board segnalano che la lunga era dei tassi negativi stia volgendo al termine. Cambiano le sfumature delle dichiarazioni, ma oramai “falchi” e “colombe” riconoscono la necessità di svoltare con la politica monetaria. Persino l’ultra-colomba Fabio Panetta sostiene che non sarebbero più necessari gli stimoli monetari ad oggi attuati dall’istituto. L’austriaco Robert Holzmann crede che la stretta possa arrivare già al board di giugno, ma analisti e investitori sono propensi ad aspettarsela per luglio.

In quell’occasione, i tassi sui depositi overnight delle banche sarebbero alzati di 25 punti base o 0,25% a -0,25%.

I tassi negativi furono introdotti per la prima volta dalla BCE nel giugno 2014. Eravamo in piena era Draghi. L’allora governatore sterzò rispetto all’ortodossia monetaria sin lì seguita a Francoforte. E dopo pochi mesi varò anche il “quantitative easing” (QE), il piano di acquisti massicci di asset, tra cui principalmente titoli di stato. Il bilancio dell’istituto crebbe di mese in mese, riflettendo le maxi-iniezioni di liquidità con cui nella sostanza fu salvato l’euro. Non è un caso che, tenendo il suo discorso all’Europarlamento la settimana scorsa, la presidente Roberta Metsola lo abbia presentato come proprio “l’uomo che ha salvato l’euro”.

Come funzionano i tassi negativi

Cosa sono i tassi negativi e cosa significa il loro prossimo addio? Le banche sono tenute a detenere scorte di liquidità in funzione dei depositi dei clienti. Superato tale limite regolamentare minimo, la liquidità eccedente è depositata presso la BCE per ricevere un tasso d’interesse o investita sui mercati finanziari o erogata in qualità di prestiti a famiglie e imprese. Con la decisione storica di otto anni fa, la BCE disse alle banche: “non solo non vi diamo un euro di interessi sulla liquidità che mi portate, ma anzi vi impongo il pagamento di un certo tasso”.

Non a caso i tedeschi li definiscono “Strafzinsen”, letteralmente “tassi-penalità”.

Questa misura non convenzionale puntava a liberare liquidità a favore dell’economia reale. Le banche avrebbero avuto tutto l’interesse ad impiegare la liquidità in eccesso in altro modo. Tuttavia, anziché fluire a imprese e famiglie sotto forma di prestiti, la via più seguita e facile fu di investire sui mercati finanziari. Lo stato dell’economia nell’Eurozona, infatti, fu percepito negli anni precedenti alla pandemia sempre molto precario, specie nel Sud. Tanto valeva acquistare titoli a basso rischio – o a rischio minore dei prestiti – per ottenere rendimenti potenzialmente molto maggiori.

Torna l’allarme spread in Italia

L’era dei tassi negativi si tradusse in maxi-acquisti di titoli di stato da parte delle banche. Finché questi offrivano loro rendimenti appena superiori al -0,5% a cui fu portato il saggio sui depositi, conveniva inserirli in portafoglio. Con questo espediente, la crisi del debito pubblico italiano rientrò sin da subito. L’allarme spread cessò, riaffacciandosi solo in occasioni legate alle frizioni tra Roma e Bruxelles, come sulle banche nel 2016 e sui conti pubblici nel 2018-2019. Nel marzo 2020, fu spento sul nascere grazie al piano anti-pandemico (PEPP) varato dalla BCE. Malgrado un debito pubblico fino a quasi il 160% del PIL, i BTp sono stati piazzati negli ultimissimi anni a rendimenti minimi record sul mercato.

Ma nel giro di pochi mesi, tutto sta cambiando. Via il PEPP. Tra qualche mese, via anche il QE e, a luglio o giù di lì, addio anche ai tassi negativi. Vengono meno tutte quelle misure che hanno tenuto a bada lo spread, aumentando artificiosamente la domanda di titoli del debito italiano. I rendimenti decennali italiani sono saliti fin sopra il 3%, segno che sia tornato l’allarme sulla sostenibilità del nostro debito.

Il rialzo dei tassi BCE spingerà in alto il costo del denaro e necessariamente ridurrà la quantità di liquidità speculativa sui mercati, la stessa con cui banche e fondi d’investimento hanno fatto shopping dei BTp anche senza credere nei fondamentali economici dell’Italia.

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