Con la cessione di un altro 12,5%, la presenza dello stato nel capitale di Monte Paschi di Siena è scesa al 26,73%. Superava il 64% fino alla terza settimana del novembre scorso, quando fu avviata la privatizzazione con la vendita di una prima tranche del 25%. Gli incassi sono stati rispettivamente pari a 920 e 653 milioni di euro, cioè 1,577 miliardi in tutto. Agli attuali prezzi di mercato, il Tesoro incasserebbe almeno altri 1,4 miliardi con l’azzeramento della propria quota residua. Nell’ultimo anno, il titolo in borsa ha registrato una crescita di oltre il 110%.

Nel frattempo la banca è tornata all’utile, a maggio staccherà il suo primo dividendo dopo numerosi anni, è stata risanata dai crediti deteriorati e depurata da gran parte dei rischi legali. Per questo si parla con sempre maggiore insistenza di trasformarla in una “public company”.

Public company alternativa a fusioni e acquisizioni

Prima di affrontare il punto, c’è da premettere che ancora lo stato cerca come soluzione un’eventuale acquisizione di Unicredit, mentre l’ipotesi di creare un terzo polo bancario con Banco Bpm e/o Bper starebbe tramontando. Con una capitalizzazione in borsa sopra i 5 miliardi, Monte Paschi sarebbe diventata troppo grande per essere rilevata da un’altra banca di medio-piccole dimensioni. E allo stesso tempo Andrea Orcel, CEO di Piazza Gae Aulenti vorrebbe perseguire solamente acquisizioni di entità che alzino il livello di remuneratività per gli azionisti.

Ed ecco, come anticipavamo, prendere corpo l’ipotesi della public company, conseguenza dello scenario “stand-alone”. In pratica, Monte Paschi resterebbe da sola, continuerebbe a fare banca da sé senza essere comprata da nessuno o aggregata ad altri istituti. Sembrava impossibile pensarlo fino solo un anno fa. Tuttavia, i numeri dicono che, perlomeno in condizioni di mercato favorevoli, Monte Paschi fa utili. Dunque, perché non provarci? Certo, nessuno si aspetta che maturi profitti al ritmo di un paio di miliardi all’anno.

E’ stato così nel 2023 grazie al boom dei tassi di interesse. In futuro, le cose saranno verosimilmente meno positive.

Tanti azionisti senza peso

Ad ogni modo, cosa significa public company? L’espressione inglese sottintende una società quotata in borsa ad azionariato diffuso. Nel capitale sono presenti numerosi piccoli azionisti e ciascuno possiede quote minime, spesso di qualche punto percentuale. In situazioni del genere, basta aggregare anche il 5-10% del capitale per arrivare a detenere il controllo. Considerate che i piccoli soci si recano poco e mal volentieri nelle assemblee. E il quorum per eleggere il consiglio di amministrazione si abbassa al punto da consentire con pochi numeri di incidere sulla governance.

Il Tesoro non rimarrà con il quasi 27% in mano. Entro l’anno scenderebbe almeno alla metà o, addirittura, azzererebbe la quota per andare incontro alla richiesta della Commissione europea di rimettere Monte Paschi sul mercato. In verità, anche con una quota di estrema minoranza riuscirebbe a garantire per la privatizzazione senza uscire del tutto dal capitale, restandovi a presidio ove lo desiderasse. Ad ogni modo, trasformare Monte Paschi in public company avrebbe indubbi vantaggi e porterebbe con sé più di un rischio.

Monte Paschi, scenario stand-alone

Un beneficio consisterebbe nella capacità della banca senese di restare autonoma. In sé potrebbe non essere né un bene, né un male. Ma se l’efficienza gestionale continuasse a migliorare, non ci sarebbe bisogno di smembrare l’istituto, come accadrebbe nel caso di eventuale acquisizione di terzi per evitare sovrapposizioni tra filiali nei territori. A quel punto, Monte Paschi potrebbe finire per diventare in futuro il fulcro di un terzo polo italiano. Attenzione a non farci entusiasmare dai dati passati, resi possibili dai sacrifici a carico dei contribuenti. La gestione privata sarebbe un’altra cosa.

Lì, i vertici dovranno dimostrare di essere bravi anche senza aiuto dello stato.

Public company, tuttavia, significa anche che nessuno comanda. E questo porta spesso a diverse conseguenze. Una è il rafforzamento degli spazi di manovra del management. Bene, finché non esonda nello strapotere e nell’autoreferenzialità. E quando accade, a pagarne il prezzo è proprio l’efficienza gestionale. Al contrario, può accadere che gli azionisti siano tutti piccoli e disinteressati sì alla gestione, ma molto alla distribuzione degli utili. In una situazione come questa, il management rischia di dover inseguire politiche di visione corta per massimizzare le cedole trimestre dopo trimestre. Il capitale ne risulterebbe indebolito, così come la capacità di autofinanziamento.

Public company e il rischio di scalate ostili

Lo strapotere dei piccoli azionisti rischierebbe anche di portare a instabilità nei vertici. Poiché bastano pochi spostamenti nel capitale per provocare ribaltoni in assemblea, nessun amministratore sarebbe al sicuro sia da sommovimenti interni, sia da scalate ostili operate con qualche spicciolo. E questo non sarebbe di buon auspicio per il business bancario, specie per la storia dell’ultimo decennio di Monte Paschi. Vero è che lo stato manterrebbe il potere di veto rispetto all’ingresso di eventuali soci indesiderati, per mezzo del “golden power”. Resta il fatto che la public company debba essere valutata con attenzione dal governo e non essere il solo frutto dell’assenza di alternative praticabili.

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