A molti di noi saranno scesi i brividi sulla schiena, quando lo scorso sabato sera il premier Giuseppe Conte ha cercato di rassicurare gli italiani sulla capacità di superare la crisi generata dall’emergenza Coronavirus, facendo riferimento a quel “tanto risparmio privato”, che “è uno dei punti di forza”. Un modo quasi involontario di dire che il debito pubblico resta sostenibile grazie all’abbondanza della ricchezza delle famiglie, stimata al 2018 in quasi 10.000 miliardi di euro, di cui 4.200 miliardi di natura finanziaria.

E al marzo scorso, secondo l’Abi sui conti bancari in Italia vi erano ben quasi 1.600 miliardi, lievitati di circa 75 miliardi in un anno.

Tira aria di patrimoniale in Italia: chi e su cosa rischia e perché non funzionerà

Non è la prima volta che un capo di governo accenna ai risparmi privati per tranquillizzare sulla sostenibilità del debito pubblico. Destra e sinistra negli anni hanno fatto a gara per convincere anche i partner europei di questo discorso, con la conseguenza che i tedeschi, in particolare, le hanno prese in parola, tant’è che qualche anno fa la Bundesbank propose una stangata del 20% sui patrimoni degli italiani per abbattere i livelli di debito.

La tassa patrimoniale è un’idea che circola ormai stabilmente da almeno un decennio negli ambienti politici e per molti sarebbe il modo più facile per fare cassa, anche se le conseguenze a medio-lungo termine sarebbero molto negative per l’economia e, in ultima analisi, per lo stesso debito sovrano che si vorrebbe mettere in sicurezza. Tra le varie forme di patrimoniale, politicamente assai complicata da giustificare, rientrerebbero ipotesi che spaziano da un prelievo forzoso come quello del 1992 dell’allora governo Amato a una sottoscrizione coattiva di BTp a lunghissima scadenza per i detentori di grossi patrimoni.

L’ombra di una patrimoniale sullo sfondo degli sprechi pubblici

Comunque sia, nulla di rassicurante.

L’idea di rendere il debito più sostenibile con una misura impositiva, quando già la pressione fiscale italiana risulta tra le più alte al mondo, si mostra fallimentare sul nascere. Per non parlare del fatto che, in un mercato globale dei capitali, solo restrizioni ai movimenti finanziari riuscirebbero a frenare i forti deflussi, che nel solo mese di marzo hanno superato la cifra record di 107 miliardi di euro. Insomma, faremmo la fine dei greci, a cui nel 2015 vennero imposti limiti ai prelievi e ai pagamenti con bancomat e carte di credito.

E non servirebbe nemmeno a migliorare la percezione sui mercati finanziari del nostro enorme stock di debito, perché quello che urge cambiare a Roma è il modo di governare e di amministrare i soldi dei contribuenti. Dei 55 miliardi stanziati con il Decreto “Rilancio”, 3 andranno alla sempiterna fallita Alitalia. Si aggiungono ai 500 milioni già previsti a marzo, a “lockdown” avviato, e ai prestiti per 1,3 miliardi sborsati tra il 2017 e il 2019, sui quali la compagnia non ha versato un solo euro di interessi, fissati inizialmente al 10%. A cosa serviranno questi altri quattrini degli italiani, oltre ad aumentare la montagna di debito? A tentare di rilanciare per l’ennesima volta l’azienda, tagliando da 113 a 92 i velivoli, a ridimensionare il numero dei voli e a smembrare gli assets per venderne una parte al migliore offerente. Per delineare questa strategia sono stati spesi 300 milioni in consulenze, un decimo dei 3 miliardi di capitali freschi annunciati. E Pantalone paga, ora ce lo fa capire pure il premier in pochette alla TV.

Il buco nero di Alitalia: perde 15 euro a passeggero

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