E’ morta ieri all’età di 87 anni la Lady di Ferro, Mrs. Margaret Thatcher, premier britannico dal 1979 al 1990 e da anni distrutta da una grave malattia. Con la sua scomparsa, si ripercorrono in queste ore le tappe della sua carriera politica, della sua ascesa fino ad arrivare a Downing Street, lei figlia di un droghiere di Grantham.  

Margaret Thatcher e il braccio di ferro con i minatori

Diventata premier il 4 maggio 1979, Margaret Thatcher porta al governo di Sua Maestà un modo nuovo fare politica.

La Gran Bretagna è stremata dalla disoccupazione, la crisi dell’economia, dagli scioperi e il collasso dei servizi pubblici. La Lady di Ferro (così fu ribattezzata dalla Pravda per la sua durezza) adottò tra i primi provvedimenti le privatizzazioni delle più importanti società britanniche, tra cui British Telecom, British Airways, le ferrovie e le industrie del gas. Ma lo scontro più duro si ebbe nel 1984, allorquando una frangia minoritaria, ma agguerritissima dei sindacati dei minatori protestò contro i tagli al bilancio del governo, tesi a cancellare tutte le diseconomie che gravavano sulla collettività. Gli scioperi durarono un intero anno e la Thatcher si rifiutò di trattare con i sindacati, in assenza di un referendum tra i lavoratori. Alla fine, la linea della fermezza pagò: lei vinse, i sindacati persero e non furono più gli stessi.  

Politica economica di Margaret Thatcher

Tra i provvedimenti del premier conservatore vi furono la lotta all’inflazione, attuati con aumenti ingenti dei tassi di interesse, la riduzione della spesa pubblica, con forti tagli alla spesa sociale, la riduzione delle tasse, le privatizzazioni anzidette, le liberalizzazioni. Il suo piano per l’economia, non a caso noto come “thatcherismo”, rilanciò il pil, l’occupazione, ridusse l’inflazione e alla lunga consentì a Londra di sganciarsi dalla stagnazione in cui sembra essere piombata l’Eurozona.

Già, perché della Thatcher si ricorda anche il suo acceso rifiuto ad aderire all’unione monetaria e di cedere quote di sovranità a Bruxelles, ribadito in un celebre discorso, tenuto agli sgoccioli del suo premierato al Parlamento di Londra con tre famosi “no” all’Europa.  

Margaret Thatcher Euro: un rapporto tempestoso

Definì l’euro “un pericolo per la democrazia”, fiutò l’inconsistenza di un progetto per cui si sarebbe varata un’unica valuta da Londra ad Atene, perdendo il controllo della sovranità monetaria e un pezzo non indifferente di democrazia. Pagò a caro prezzo tale rifiuto, perché tornando da un vertice a Roma, nel mese di ottobre del 1990, in cui solo lei si era opposta alla maggiore integrazione politica e monetaria dell’allora CEE, i suoi compagni di partito le fecero trovare una bella sorpresa: il ministro degli Esteri, Geoffrey Howe, si dimetteva in contrasto col suo euro-scetticismo, mentre la sua ricandidatura per la segreteria dei Tories sarebbe stata contrastata da Michael Heseltine, su cui prevalse con difficoltà e solo al secondo turno. Uno choc, che la spinge alle dimissioni nel novembre del 1990, dopo 11 anni e mezzo di governo, uscendo da Downing Street con gli occhi velati di lacrime. Due anni dopo, nel 1992, proprio la non partecipazione della sterlina al progetto dell’euro portò a un attacco speculativo contro la valuta britannica, che uscì dallo SME insieme alla lira. Fu il trionfo (temporaneo) di quanti tra gli stessi conservatori avevano criticato l’ostinazione della Thatcher contro la moneta unica.  

Gran Bretagna Euro: quel “No” guardato con il senno di “poi”

Oggi, tuttavia, il giudizio sul suo euroscetticismo in patria sembra essersi ribaltato da negativo in positivo. Seppure tra non poche difficoltà che l’economia inglese sta vivendo di questi tempi, Londra è stata però tenuta fuori dall’Area Euro e dalle sue disavventure e ciò proprio grazie a Margaret Thatcher e al successore John Major, che fu suo ministro dell’Economia.

La Lady di Ferro non credeva alle ammucchiate politiche, burocratiche e transnazionali, mentre nutriva una forte fiducia nel libero mercato, tanto da avere promosso la concorrenza interna e la maggiore apertura commerciale tra le diverse economie. Insieme a Ronald Reagan, quindi, fu ispiratrice della globalizzazione economica e finanziaria, quale antidoto allo statalismo e alla sua inefficienza. Ma attenzione: chi associa il thatcherismo alle bolle speculative che hanno portato alla crisi dei subprime del 2008 sbaglia. La Thatcher non alimentò mai sotto il suo governo l’indebitamento privato, anzi, lo scoraggiò, aumentando i tassi e assegnando alla Bank of England il solo compito di lottare contro l’inflazione e non di stampare moneta a scopi anti-ciclici. In ciò, il suo credo è stato raccolto dalla BCE, con la differenza che la Lady di Ferro si trovava a gestire un’economia relativamente omogenea, la Gran Bretagna, non una cozzaglia di stati così differenti tra loro, come oggi è l’Eurozona. La finanziarizzazione dell’economia, pertanto, non solo non può essere fatta risalire al thatcherismo, ma si pone in contrasto con esso. Lo stato non interventista nemmeno in politica monetaria e valutaria, secondo i dettami che la Thatcher raccolse da Milton Friedman e da Friedrich von Hayek, non avrebbe incoraggiato bolle, il sovradimensionamento del mercato creditizio e per contro l’eccessiva esposizione ai debiti del settore pubblico e privato. Chissà quanti sudditi di Sua Maestà, conservatori o laburisti, staranno ringraziando in queste ore nel proprio animo la baronessa di Kesteven per averli almeno salvati dalla sciagura dell’euro.