Non c’è pace per la lira turca dopo che la banca centrale ha annunciato settimana scorsa un secondo taglio dei tassi in appena un mese. Il costo del denaro è stato abbassato di altri 200 punti base al 16%. Era al 19% fino a settembre. Nel frattempo, l’inflazione risulta salita al 19,6%. Il cambio contro il dollaro si è avventurato ieri nei pressi di 9,80, perdendo il 24% quest’anno. Il collasso non tocca il presidente Erdogan, che ha imposto l’allentamento monetario per ravvivare l’economia e, a suo dire, contenere l’inflazione.

Anzi, domenica ha annunciato che 10 ambasciatori di altrettanti stati dell’Occidente saranno considerati “persone non gradite” in Turchia. Tra questi, i rappresentanti di USA, Canada, Francia e Germania. Una decisione presa per via delle critiche dei governi alla detenzione da quattro anni dell’imprenditore e filantropo Osman Kavala.

Le tensioni geopolitiche sono la ciliegina sulla torta per il tracollo della lira turca. Poche settimane prima, Erdogan aveva reso noti ulteriori acquisti di missili S-400 dalla Russia, in aperte violazione delle disposizioni NATO. E dopodiché aveva minacciato nuove incursioni militari in Siria contro un gruppo di ribelli curdi, accusato di connivenza con i terroristi interni del PKK. I rapporti con l’Occidente sono ai minimi storici, aggravando la fuga dei capitali.

Lira turca e inflazione remano contro Erdogan

Gli investitori stranieri detenevano il 30% del debito pubblico turco in lire nel 2013, oggi meno del 5%. La banca centrale non può difendere il cambio, disponendo di riserve valutarie nette assai scarse, per non dire nulle. Erdogan crede e spera che il crollo della lira turca sostenga le esportazioni e, per tale via, anche il PIL. Una pia illusione, se si pensa che nei primi 9 mesi dell’anno la Turchia ha accusato un saldo commerciale passivo per quasi 30 miliardi di dollari. E se è vero che un cambio debole accresca teoricamente la competitività delle imprese turche, d’altra parte finisce per aumentare il costo dei beni importati, tra cui l’energia e le altre materie prime.

I consumatori turchi stanno vivendo sulla loro pelle la follia del loro governo. Alle stazioni di servizio, un litro di verde costa ormai quasi 8 lire, circa 0,70 euro. Un litro di diesel arriva a 8,20 lire, circa 0,725 euro. E il peggio deve arrivare. Il governo aveva eliminato quest’anno tasse sul carburante per 46 miliardi di lire (4 miliardi di euro). Ma lo sconto fiscale è finito e ciò accentuerà il rialzo dei prezzi alla pompa, già sostenuti dal caro greggio e dal crollo della lira turca. E la perdita veloce del potere d’acquisto sta riducendo le quotazioni di Erdogan in vista delle elezioni presidenziali nel 2023. I sondaggi dicono che oggi come oggi perderebbe nettamente contro il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu.

Di fatto, Erdogan si gioca la rielezione con l’andamento dell’economia nel 2022. Per questo, non accetta alcuna politica monetaria di freno alla crescita, anche se non sembra capire che proprio l’alta inflazione gli sta alienando una fetta crescente della popolazione. Ed essa finirà per imporre alla banca centrale una stretta nei prossimi mesi, quando il collasso della lira turca diverrà così eclatante da provocare la totale destabilizzazione dei prezzi interni. E a ridosso delle elezioni, tra lo spettro dell’iperinflazione e l’impatto duro del rialzo dei tassi sull’economia, sì che una ennesima vittoria di Erdogan sarebbe seriamente a rischio.

[email protected]