La Banca Centrale dell’Egitto ha comunicato nella mattinata di oggi di avere alzato i tassi di interesse dal 21,25% al 27,25% e contestualmente di accettare che il tasso di cambio si muova secondo le forze del mercato. Ed è così che il dollaro ufficialmente è passato dal valere 30,9 lire a 42 lire in un solo colpo. Una svalutazione del 26,5%, la quarta dal 2022. In due anni, la valuta emergente ha perso quasi i due terzi del suo valore contro il dollaro (-63%).

Cambio in Egitto ancora più debole al mercato nero

L’annuncio è stato positivamente dal mercato, come testimoniano i maxi-rialzi dei bond in dollari emessi dall’Egitto.

La svalutazione del cambio è una mossa necessaria e scontata ampiamente dagli investitori dopo le elezioni presidenziali di dicembre, stravinte come da attese dal presidente uscente Al Sisi. Il collasso valutario di oggi, tuttavia, non dovrebbe essere la fine della storia. Al mercato nero un dollaro scambia in queste ore contro quasi 49 lire locali, implicando un’ulteriore perdita per queste nell’ordine del 14%.

L’Egitto versa in profonda crisi economica e finanziaria. L’inflazione è scesa dal 38% a cui era arrivata nel settembre scorso, ma resta altissima e appena sotto la soglia del 30%. Le riserve valutarie stanno risalendo, ma si mostrano incongrue per soddisfare la domanda di divise internazionali forti per le importazioni e i pagamenti dei debiti con l’estero. E pesa il pesante passivo della bilancia commerciale, che lo scorso anno ha chiuso a -36,9 miliardi di dollari, oltre il 7% del Pil. Male anche le partite correnti, a -5,7 miliardi nei primi nove mesi del 2023.

La svalutazione del cambio in Egitto avvicina gli aiuti dell’FMI

La svalutazione del cambio in Egitto servirà a riequilibrare la bilancia commerciale, colpendo le importazioni e favorendo le esportazioni da un lato e attirando capitali esteri dall’altro. Inoltre, è stata una mossa prodromica alla negoziazione con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per l’ottenimento di un prestito.

A fine 2022, l’istituto aveva già stanziato 3 miliardi da rimborsare in 46 mesi, ma ad oggi non ha provveduto a sborsare un solo centesimo, richiedendo prima le riforme, tra cui proprio la svalutazione. In questi giorni, si vocifera che, al fine di evitare il crac egiziano, sarebbe disposto ad alzare il prestito a 10 miliardi.

Emirati Arabi Uniti in soccorso con $35 miliardi

Nel frattempo, gli Emirati Arabi Uniti hanno stretto un accordo cruciale con Il Cairo per salvarne le finanze statali. Sborseranno la cifra monstre di 35 miliardi di dollari per sviluppare l’area turistica di Ras Gamila. Di questi, 24 miliardi saranno pagamenti in contanti e altri 11 miliardi trasferimenti alla Banca Centrale dell’Egitto. E venerdì scorso, i primi 5 miliardi sono stati già pagati. Un’ottima notizia per il paese nordafricano, che quasi certamente è ora nelle condizioni di scansare il default nel breve termine.

Timori per l’inflazione

Il fatto è che la svalutazione del cambio in Egitto avrà conseguenze. I prezzi dei prodotti importati aumenteranno ulteriormente e ciò finirà per rinfocolare l’inflazione. A patirla saranno le famiglie, specie con redditi bassi. Non è l’unica economia africana ad attraversare una tale fase complicata. La Nigeria, che per Pil è prima nel continente, si ritrova a gestire una situazione del tutto simile, anzi persino più grave. E anche qui la svalutazione del cambio è da un lato necessaria per fronteggiare la carenza di riserve valutarie, dall’altro comporta problemi sociali per via dell’impatto sull’inflazione.

Pesano le tensioni nel Mar Rosso

Il soccorso provvidenziale degli Emirati Arabi Uniti e le maggiori attenzioni recenti dell’FMI verso l’Egitto coincidono con le tensioni nel Mar Rosso, dove i ribelli Houthi dallo Yemen attaccano ormai quotidianamente le navi commerciali in transito.

Il Cairo riscuote i diritti di passaggio da tali navi e sta accusando un forte calo del gettito presso il Canale di Suez, per via del cambio di rotta per molte di esse. Nell’anno fiscale al 30 giugno 2023, era stato di 9,4 miliardi di dollari, valendo il 2% del Pil. Non poco per uno stato con entrate complessive di poco superiori al 18%.

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