Il World Economic Forum (WEF) ha iniziato a stilare dal 2006 una classifica internazionale sul gap tra uomini e donne in quattro ambiti differenti: partecipazione economica e opportunità, istruzione, potere politico, salute e longevità. I risultati ottenuti da 144 stati quest’anno hanno esitato per la prima volta da undici anni un ampliamento delle disparità di genere, causato dall’economia. Oggi come oggi, secondo il rapporto, servirebbero 217 anni per giungere a una piena uguaglianza tra i sessi. Chiaramente, non tutti i paesi sono sullo stesso piano, perché se molti fanno molto bene, altri vanno molto, molto peggio.

E l’aspetto interessante sta nel fatto che non esisterebbe un rapporto automatico tra ricchezza e tendenziale uguaglianza tra uomo e donna, ovvero anche economie relativamente ricche presentano livelli spesso imbarazzanti di disparità tra i due sessi.

Prendiamo l’Asia: tutte le sue principali economie giacciono in fondo alla classifica e in gran parte continuano ad arretrare rispetto al posizionamento dello scorso anno. Il ricco Giappone si trova al 114-esimo posto (da 111), la Corea del Sud al 118-esimo (da 116), l’India al 108-esimo (da 87), la Malaysia al 104-esimo (da 106), la Cina al 100-esimo (da 99), etc. Il Giappone, ad esempio, figura al primo posto per salute e longevità, ma sprofonda con riguardo al basso tasso di partecipazione delle donne all’economia e al potere politico. E dire che poche settimane fa sembrava voler correre contro il premier Shinzo Abe alle elezioni anticipate la governatrice di Tokyo. Chissà che la sua candidatura non avrebbe smosso in positivo la triste classifica nipponica.

Dunque, pur essendo sempre più incisiva sulla crescita mondiale, l’Asia si mostra abbastanza refrattaria alla parità tra uomo e donna. In Cina, seconda economia del globo dopo gli USA, a segnare negativamente è la diffusa preferenza tra le coppie di avere un figlio maschio anziché femmina, conseguenza della politica del figlio unico, abolita solo di recente, che ha spinto milioni di famiglie, dovendo scegliere di avere un solo erede, di abortire feti femminili, in quanto avrebbero determinato costi maggiori.

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Disparità economiche deprimono pil mondiale

Quanto alle prime posizioni, qui troviamo l’Europa: l’Islanda mantiene il primato, mentre la Norvegia sale in seconda posizione, scavalcando la Finlandia, che arretra alla terza. Incredibilmente, al quarto posto abbiamo il Ruanda, che scala di una posizione la classifica, salendo davanti alla Svezia; poi Nicaragua, Slovenia, Irlanda, Nuova Zelanda e Filippine. Il paese del chiacchieratissimo presidente Rodrigo Duterte perde tre posizioni, ma resta tra i più equi al mondo con riguardo ai sessi.

Una delle misure utilizzate per verificare la disparità di genere è la differenza tra le retribuzioni percepite dagli uomini e quelle delle donne. Tra le economie OCSE, a parità di mansione, tale gap sarebbe solamente del 2%, ma tende ad essere concretamente più alto, in quanto le donne sarebbero più propense (e costrette) ad accettare lavori meno qualificati e retribuiti e meno presenti si trovano in posizioni di alto livello, dove si guadagna di più. Da questo punto di vista, abbiamo che mediamente il reddito di una donna è pari all’80,5% di quello di un uomo in Slovenia, ma ad appena il 42,6% in Kuwait, con risultati piuttosto bassi nel Regno Unito (55,3%), Olanda (48%), ma anche Giappone (52,4%), Irlanda (58,3%), Nuova Zelanda (62,1%), Australia (62,4%) e USA e Belgio (64,8%).

Secondo il WEF, se da qui al 2025 le economie del pianeta fossero in grado di colmare il gap economico tra uomo e donna del 25%, il pil mondiale aumenterebbe di ben 5.300 miliardi di dollari, di cui quasi la metà (2.500 miliardi) nella sola Cina, 310 in Germania, 320 in Francia, 250 nel Regno Unito, 550 in Giappone e 1.750 negli USA.

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