C’era una volta il sindacato. Avete presente quelle organizzazioni che indicevano scioperi ad oltranza anche contro la pioggia e che paralizzavano la Capitale anche alla sola idea del governo di turno di varare una riforma delle pensioni o del mercato del lavoro? Scomparsi dai radar. Oggi, parlano il linguaggio della “responsabilità”, rinnegando evidentemente i loro avatar dei decenni passati. E se l’inflazione in Italia galoppa intorno al 7%, ti aspetteresti che alzassero la voce per reclamare aumenti degli stipendi per i lavoratori.

Non è così. Maurizio Landini, il segretario CGIL preso sottobraccio dal premier Mario Draghi all’inizio della sua avventura al governo, non ha trovato di meglio nei giorni scorsi che di invocare la tanto amata (a sinistra) patrimoniale.

Ma poiché il sindacato ha perso persino il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, Landini l’ha definita “prelievo di solidarietà”, chiaramente a carico dei soliti “grandi” patrimoni sopra 1,2 milioni di euro, l’1% del totale. Servono risorse per combattere il carovita, ha spiegato. E i 5 miliardi stanziati dal governo non bastano.

Il disco rotto del sindacato sulla patrimoniale

Landini e, più in generale, i sindacati del ben poco efficace trio (CGIL-CISL-UIL), cantano la stessa melodia della patrimoniale come un disco rotto. E lo fanno da così tanti anni, che quando la invocano non fa più notizia. Sarebbe da titolo in prima pagina, invece, leggere attraverso le agenzie di stampa che un Landini qualunque abbia chiesto al governo di trovare subito tot miliardi per aumentare gli stipendi pubblici o proclamato lo sciopero generale a favore dei rinnovi contrattuali nel settore privato. Ma, dicevamo, i sindacati si sono evoluti. Hanno alzato la voce nell’autunno scorso contro il “pericolo fascista”, perché giustamente hanno fiutato il rischio che le milizie di Forza Nuova, che alle elezioni politiche del 2018 ottennero ben lo 0,38% alla Camera e, addirittura, lo 0,50% al Senato, potessero minacciarne l’operato.

Per caso i sindacati dovrebbero ripetere l’errore commesso negli anni Settanta, quando chiesero e ottennero da una “generosa” Confindustria a guida Gianni Agnelli la scala mobile? Non di certo. Agganciare i salari all’inflazione in maniera automatica riproporrebbe il rischio di una spirale prezzi-salari-prezzi. Avremmo solo più inflazione e nessun miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. E, però, gli aumenti del carovita ci sono. Come possiamo fare in modo che i lavoratori non guadagnino meno di un anno fa in termini reali? Tagliando le tasse.

Taglio delle tasse per aumentare gli stipendi

Attenzione, questa è materia oscura per i sindacati. Meno tasse uguale a salari più alti? Com’è possibile? Poiché la busta paga che riceve il lavoratore è ciò che gli rimane dopo che l’impresa ha versato per lui IRPEF e contributi INPS, l’unico modo per aumentarne l’importo senza gravare i conti aziendali consiste nel tagliare proprio le aliquote. A maggior ragione che le imprese stesse stiano subendo la batosta dei prezzi, il cui aumento riflette per loro semplicemente maggiori dei costi e non già maggiori margini di profitto, con le dovute eccezioni nei settori interessati dai rincari, come l’energia.

Si potrebbe eccepire che un taglio delle aliquote IRPEF vi sia stato già, a partire dalla busta paga di marzo. Verissimo, ma esso fu concepito quando il governo Draghi stimava (in parte, colpevolmente) un’inflazione all’1,5% e non al 7%. Di fatto, i lavoratori non percepiranno alcun beneficio per il semplice fatto che gli aumenti netti in busta paga saranno più che divorati dai rincari di bollette, generi alimentari e quasi qualsiasi altro bene e servizio. E, comunque, la pressione fiscale rimane altissima, limitando i margini di ripresa dell’economia italiana.

Sindacato paralizzato dallo status quo

Immaginate se il governo trovasse i fondi per tagliare le aliquote IRPEF al 20% sui redditi fino ai 24.000 euro all’anno.

Rispetto ad oggi, con aliquota al 23% fino ai 15.000 euro e al 25% dai 15.000 ai 28.000 euro, il contribuente con un reddito di 24.000 euro (2.000 euro al mese) si ritroverebbe a pagare esattamente 900 euro in meno all’anno, il 3,75% di quanto dichiarato. Non compenserebbero forse la perdita del potere d’acquisto patita a causa dell’inflazione, ma certamente sarebbe molto di più di quanto porterebbero a casa Landini e i suoi colleghi sonnecchianti anche impegnandosi al massimo dei loro sforzi, figuriamoci con la svogliatezza di questi anni.

Ma se il trio delle meraviglie non lo chiede è perché sa che taglio delle tasse equivale a riduzione della spesa corrente improduttiva, vale a dire la giungla di elargizioni sociali su cui le sigle sindacali costruiscono il loro consenso nei territori attraverso Caf e patronati. Sanno anche che implicherebbero il dimagrimento degli uffici pubblici meno efficienti e di cui spesso si fatica a capirne il senso. Tutti iscritti al sindacato, anzi ne sono l’ossatura portante. Per questo Landini concepisce la patrimoniale come espressione massima della fatica mentale a cui il suo sindacato può arrivare senza addentrarsi sul campo minato di riforme potenzialmente nocive al proprio potere. Del resto, stiamo parlando dello stesso trio che combatte la legge Fornero a dieci anni di distanza dall’entrata in vigore.

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