Il Principe Mohammed bin Salman ha svelato nella primavera dello scorso anno la sua “Saudi Vision 2030”, un piano rivoluzionario, che punta a sganciare l’economia saudita dalla dipendenza verso il petrolio in pochi anni. Questa trasformazione epocale per il principale produttore dell’OPEC, il cartello che controlla oltre un terzo dell’offerta mondiale di greggio, si basa sull’aumento delle entrate fiscali non legate al petrolio. Queste ammontavano all’89% del totale nel 2014, anno in cui le quotazioni iniziarono a ripiegare, finendo per crollare a inizio 2016 sotto i 30 dollari al barile, ai minimi da quasi un quindicennio.

Adesso, pesano per poco più della metà. Per l’esattezza, nei primi 6 mesi del 2017 sono state pari al 55%, ma la loro percentuale sarebbe destinata a diminuire ulteriormente già dalla seconda metà dell’anno, quando sarà implementata la prima parte delle riforme fiscali volute dal numero due del regno. (Leggi anche: Rivoluzione saudita: vivere senza petrolio)

Tra IVA sui beni di lusso, accise su tabacco, bevande analcoliche ed energizzanti e tasse sulle ricongiunzioni familiari degli immigrati stranieri residenti nel paese, l’Arabia Saudita si aspetta per il 2018 entrate extra per 80 miliardi di rial, circa 21,3 miliardi di dollari, il 3% del pil. E il buon andamento anche dei prezzi petroliferi, relativamente ai livelli del 2016, sta irrobustendo anche le entrate del settore, consentendo a Riad di contenere il deficit fiscale a 73 miliardi di rial (19,4 miliardi di dollari) nel primo semestre. Così, per quest’anno Bank of America – Merrill Lynch si attende che possa essere centrato il target del governo per un disavanzo al 7,8% del pil, molto meno del 12,8% precedentemente stimato dall’istituto e ben inferiore al 17,2% del 2016.

Rischio recessione per sauditi

Certo, la transizione verso un’economia meno dipendente dall’oro nero non è indolore. Le riserve valutarie del regno sono impiegate da un paio di anni per attutire il deficit, scendendo di 247 miliardi di dollari dall’apice toccato nell’agosto 2014 a 499 miliardi nel maggio scorso, sotto la soglia psicologica del mezzo trilione.

E la crescita dell’economia saudita non petrolifera è attesa essere quest’anno di appena lo 0,5%, a causa dei tagli alla spesa pubblica varati dalla monarchia. Considerando che l’abbassamento della produzione di petrolio, a seguito dell’accordo OPEC del novembre 2016, dovrebbe ridurre dello 0,4% le dimensioni dell’economia petrolifera nazionale, Riad potrebbe non riuscire a schivare la recessione.

Nel frattempo, il tasso di disoccupazione è attesa raddoppiare al 12,3%, anche perché lo stesso governo sta spingendo la popolazione locale a cercarsi un lavoro, essendo finita l’era della vita semi-gratis, tra benefici assistenziali molto generosi e sussidi energetici e di altro tipo. Già nell’ultimo quindicennio, tuttavia, il numero degli occupati risulta sostanzialmente raddoppiato, seppure trainato dagli stranieri. (Leggi anche: Piano saudita da 2.000 miliardi, tasse tagliate su Aramco)

IPO Aramco segnerà successo o meno della rivoluzione saudita

E’ evidente, però, che il successo della rivoluzione saudita dipenderà da quello dell’IPO di Aramco, la compagnia petrolifera statale, stimata da un minimo di 1.000 fino a un massimo di 5-6.000 miliardi di dollari. Il regno vorrebbe quotarne un 5%, puntando a incassare non meno di 100 miliardi, valutando il capitale totale a circa 2.000 miliardi. L’operazione epocale dovrebbe tenersi l’anno prossimo e consentirebbe al regno di ottenere risorse sufficienti per colmare i gap fiscali per anni, in attesa di portare a regime tutte le riforme economiche in atto.

Il sacrifico auto-imposto da mesi sul fronte dei tagli alla produzione e alle esportazioni di petrolio risiede proprio nella volontà di sostenere le quotazioni, in previsione dell’IPO. Una cosa è cedere sul mercato parte di una società che vende greggio a 40 dollari, un’altra è che le quotazioni si collochino ben al di sopra dei 50, se non a 60 dollari, come spera Riad da qui all’anno prossimo.

Nel frattempo, le principali borse del pianeta fanno carte false per ospitare parte della quotazione. Londra vuole esserci a tutti i costi, anche cambiando le regole per le IPO, dovendo dimostrare al mondo che la City resta sempre la City, Brexit o meno. (Leggi anche: City contro petrolio a Londra)