L’avvio della sessione per i lavori del Congresso Nazionale del Popolo a Pechino è stata una doccia fredda per la comunità internazionale. L’organo legislativo della Cina comunista ha presentato una bozza di legge con la quale intende ridurre l’autonomia di Hong Kong sul fronte della sicurezza e nella quale è scritto che “se necessario, i massimi organi di sicurezza nazionale del Governo Centrale del Popolo coordineranno le agenzie a Hong Kong per espletare i doveri necessari alla salvaguardia della sicurezza nazionale, secondo la legge”.

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In altre parole, se sino ad oggi Hong Kong è stata autonoma nella gestione della sua sicurezza, da qui a breve potrebbe non esserlo più. Il tentativo di Pechino di mettere le mani sul territorio autonomo vi fu già nel corso del 2019, quando il governatore Carrie Lam cercò invano di far passare una legge sull’estradizione verso la Cina, che per gli abitanti divenne il simbolo della volontà del governo centrale di eliminare lo status che dal 1997 ad oggi ha garantito loro benessere e libertà invidiati in tutto il mondo.

Hong Kong fu un protettorato britannico fino al 30 giugno 1997, quando avvenne il passaggio del territorio in mani cinesi. L’accordo sino-britannico del 1984 si fonda sul principio del cosiddetto “uno stato, due sistemi”. Grazie ad esso, in pratica, Hong Kong ha goduto di uno status peculiare in termini di libertà civili ed economiche, tant’è che, sfidando lo scetticismo dei più, con il passaggio del territorio in mani cinesi il territorio si è mostrato in grado di crescere e di attirare capitali dal resto del mondo e da allora il suo pil risulta più che raddoppiato a oltre 370 miliardi di dollari, pari a un pil pro-capite di poco meno di 50.000 dollari, 5 volte superiore a quello cinese.

Ritorsioni anti-cinesi pronte

Hong Kong è diventata una delle piazze finanziarie più importanti al mondo, grazie all’estrema affidabilità della sua economia, che figura tutti gli anni ai vertici delle classifiche internazionali sul grado di libertà d’impresa. Quest’anno, ad esempio, è seconda nel Business Freedom Index stilata dal Wall Street Journal, in collaborazione con il think-tank conservatore The Heritage Foundation. Eppure, già prima della discussa decisione di questi giorni, Hong Kong aveva subito la più grave recessione dal 1974, essendo il suo pil crollato dell’8,9% nel primo trimestre, successivamente al -3% accusato nell’ultimo trimestre del 2019, quando le proteste anti-Pechino hanno messo in fuga gli investitori stranieri, “congelando” svariate IPO.

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Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha avvertito che, se la legge sulla sicurezza cinese violerà il Sino-British Joint Declaration, ci saranno ritorsioni contro Pechino. E a pagare pegno, tuttavia, sarebbe la stessa Hong Kong, dato che certamente gli USA vieterebbero l’esportazione di tecnologia sensibile sul suo territorio e potrebbero procedere con l’imposizione degli stessi dazi applicati a merci e servizi cinesi. Inoltre, quanti investitori accetterebbero di quotare in borsa le loro società a Hong Hong, sapendo che sarebbe nei fatti ormai assoggettata alle autorità cinesi, che godono di gran lunga minore fiducia sui mercati?

La “guerra” commerciale che verrà

Difficilmente la Cina vorrà indietreggiare dinnanzi alle proteste di 200 tra capi di stato e di governo e politici di tutto il mondo. Anzi, ora più che mai intende segnalare a Washington la propria non subalternità dinnanzi all’Occidente, volendo ricostruirsi un’immagine di forza nella fase successiva all’emergenza Coronavirus, esplosa inizialmente nella provincia del Wuhan, dove per settimane non sarebbe stata affrontata come dovuto per non allarmare gli investitori stranieri. La Cina rischia di rimanere vittima del vento di de-globalizzazione che soffia nel mondo più forte che mai, dopo che la pandemia ha fatto aprire gli occhi a governi e popolazioni in Europa e Nord America sull’eccessiva dipendenza dalle produzioni delocalizzate in Asia.

Ad oggi, il 60% delle prime 500 multinazionali ha sede a Wuhan. In sostanza, la Cina è diventata la manifattura del mondo, ma potrebbe non restarlo a lungo, specie se l’America di Donald Trump, come sembra, tenterà di sfruttare l’accaduto per rimpatriare almeno tutte le produzioni sensibili, puntando a una loro regionalizzazione. Le mani cinesi su Hong Kong svelerebbero un certo nervosismo di Pechino, la volontà non solo di rivendicare il controllo incondizionato sui territori amministrati, ma anche forse di non rimanere tagliata dagli immensi flussi dei capitali che fluiscono nella regione.

Per il mondo, non solo la possibile perdita di un porto sicuro ad oggi per gli investimenti finanziari, bensì la consapevolezza che stiamo dirigendoci verso una “guerra” commerciale non più solo a colpi di dazi, com’è stato nell’ultimo biennio tra USA e Cina, quanto più che altro nelle forme di una re-localizzazione della produzione, un richiamo alle multinazionali occidentali perché tornino a produrre e creare posti di lavoro in patria. E dopo che i governi stanno iniettando loro centinaia di miliardi in aiuti per tenerne vive le attività, la loro azione di “moral suasion” si farà forte e potenzialmente efficace. E forse la Cina si prepara a questo scenario, perché se l’Occidente reclama la sua manifattura, Pechino vorrà sottrargli il “giocattolo” con cui nei decenni passati ha potuto portare i suoi capitali in Asia.

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