La notizia è di questi giorni e segna nell’immaginario collettivo un altro punto a favore del sub-continente asiatico. La borsa indiana ha superato Hong Kong per capitalizzazione, salendo a inizio settimana a 4.330 miliardi di dollari contro 4.290 miliardi. Dal picco toccato nel febbraio del 2021, la seconda perde il 47%. In valore assoluto, qualcosa come -6.000 miliardi di dollari insieme alle borse cinesi di Shenzen e Shanghai. Viceversa, la borsa indiana ha guadagnato nello stesso periodo di tempo il 36%. E dai minimi toccati durante la crisi finanziaria mondiale del 2008-’09, è riuscita a moltiplicare per otto il valore del suo principale indice Sensex.

Borsa indiana su, Cina giù

L’anno scorso, la borsa indiana è stata anche la seconda al mondo dopo la Cina per IPO, cioè per quotazioni di nuove società. Sono state 240 contro le 362 della rivale asiatica. Ma il trend la dice lunga anche in questo caso: +55,8% contro -28,5%. In termini di capitali raccolti, il dominio di Pechino resta forte: 60,5 miliardi di dollari, pari al 48% del totale mondiale contro appena 7,1 miliardi, pari al 5,6%. Ma anche in questo caso i numeri salgono per Nuova Delhi dal 4,1% del 2022, mentre scendono per le borse cinesi dal 56%.

C’è da dire che gli analisti si mostrano divisi circa le prospettive per i prossimi mesi. Alcuni fanno notare come la borsa indiana sarebbe attualmente molto apprezzata, cosa che non si può certo dire di Hong Kong e delle altre borse cinesi. In effetti, il rapporto tra prezzi e utili per la prima è salito sopra 24, mentre è di 11,3 in Cina e di 9,53 nella città-stato. Senza un sensibile aumento dei profitti societari, c’è il serio rischio che la borsa indiana diventi preda di una bolla finanziaria.

Agenda Xi non paga, Cina in deflazione

Tuttavia, non è soltanto l’aspetto prettamente azionario a preoccupare il presidente Xi Jinping. Dalla pandemia in avanti, la fuga dei capitali dalla Cina è stata evidente.

Tra restrizioni anti-Covid assai dure, contraccolpi alla domanda interna e crac del mercato immobiliare, l’economia cinese sta rallentando vistosamente il passo. Tanto che la Banca Popolare Cinese è intervenuta in settimana per tagliare il coefficiente di riserva obbligatoria dello 0,50%, al fine di liberare fino a 1.000 miliardi di yuan (quasi 130 miliardi di euro) di prestiti a favore del settore privato.

L’anno scorso, l’indice dei prezzi al consumo è salito di appena lo 0,2%, segno della debolezza della domanda. A dicembre, è stato negativo dello 0,3% dal -0,5% di novembre. In pratica, l’economia cinese si trova in deflazione. Le tensioni geopolitiche stanno avendo un ruolo decisivo, lasciando fuori dalla finestra i capitali occidentali. Questi preferiscono puntare ora sull’India, che si mostra un attore internazionale promettente sia per alcune caratteristiche socio-demografiche, sia per la sua posizione geopolitica molto meno ostile all’Occidente. Di fatti, parliamo della più grande democrazia al mondo, pur imperfetta.

Modi pro-business, Pechino fa paura

La borsa indiana ha attirato fondi stranieri per 21 miliardi di dollari nel 2023. C’è ottimismo sui tassi di crescita dell’economia domestica, anche grazie alle numerose riforme pro-business del premier Narendra Modi, in cerca del terzo mandato consecutivo in primavera. E già si parla di decennio indiano. Qualcuno azzarda che questo alla fine si rivelerà il secolo indiano, non cinese.

Ben prima della pandemia, comunque, c’erano già le avvisaglie della crisi del Dragone. L’agenda del presidente è di stampo nazionalista e repressiva di ogni forma di dissenso. Con la crisi della borsa nell’estate del 2015 si ebbero i primi segnali di quali sarebbero stati i metodi di Xi per fronteggiare eventuali imprevisti: capitali “congelati”, maggiori controlli e minacce rivolte agli investitori stranieri. Un allarme scattato anche tra gli investitori domestici, che non sembrano fidarsi più tanto delle autorità.

Malgrado un piano di sostegno alle azioni cinesi tramite le società di stato, il taglio dell’imposta di bollo e restrizioni alla vendita degli asset, i corsi non decollano.

Borsa indiana meta di capitali in fuga dalla Cina

Hong Kong paga pegno e rischia di perdere lo status di hub finanziario asiatico. Dal luglio del 1997 è passato dal protettorato britannico sotto l’amministrazione di Pechino. Tuttavia, la sua forte autonomia era stata garantita fino a pochissimi anni fa, quando Xi ha calcato la mano per reprimere ogni forma di dissenso contro la madrepatria. Blitz nelle redazioni dei giornali di opposizione, arresti tra i manifestanti, approvazione di una legge per consentire l’estradizione e altre misure tese a limitare la libertà dei residenti. Da paradiso per il capitalismo, la città-stato non è più considerata meta sicura per gli investitori stranieri, specie con le tensioni geopolitiche tra Asia e Occidente in corso.

La borsa indiana sta approfittando di questo tracollo, anzitutto, d’immagine per proporsi come alternativa. Vanta non solo rapporti migliori con Nord America, Europa, Giappone e Australia, ma anche una manodopera a minor costo, più abbondante e con maggiore propensione al lavoro. La demografia è dalla sua parte. Mentre in Cina, a causa della sciagurata politica del figlio unico dei decenni passati, ci sono poche nascite e la popolazione è già relativamente anziana, in India il problema per il momento neppure si pone. Il tasso di fertilità supera i due figli per donna contro meno di 1,30 in Cina. E dallo scorso anno è diventato il paese più popoloso del pianeta con oltre 1,4 miliardi di abitanti, superando anche in quel caso la rivale asiatica.

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