Centinaia di studentesse di almeno una trentina di scuole in Iran sono finite in ospedale nelle ultime settimane per avvelenamento. Hanno avvertito problemi respiratori e senso di soffocamento. Il presidente Ebrahim Raisi ha ordinato un’inchiesta per accertare le cause. Il sospetto tra gli oppositori è che si tratti di una manovra del regime per dissuadere le ragazze dal frequentare scuola e università. La repressione dell’ayatollah Khamenei si sta concentrando sempre più contro le giovani donne dopo le proteste esplose nei mesi scorsi per la morte di Mahsa Amini.

La 22-enne di origini curde fu fermata dalla polizia morale per avere indossato male il velo nel settembre scorso. Portata in caserma, dopo alcune ore ne usciva morta. Questa non è solo la storia di una barbarie, ma anche di una crisi economica sempre più forte.

Crisi Iran, rial al collasso e inflazione altissima

Ad essere sinceri, sembra che l’ondata di repressione sia conseguenza proprio del collasso dell’economia iraniana. Il cambio al mercato nero è sprofondato ai nuovi minimi storici in questi giorni. Per comprare un dollaro servono più di 600.000 rial. Prima delle proteste, ne bastavano meno di 300.000. Un crollo del 50%, che sta rinfocolando l’inflazione. I dati ufficiali la danno in calo al 46,3% a gennaio. La realtà sarebbe molto più grave. Del resto, il governo è abilissimo nel manipolare le informazioni. Di recente, Raisi ha parlato di riduzione della base monetaria, ovvero della liquidità in circolazione. Qualche economista indipendente ha notato, invece, che questa è cresciuta del 56% in sette mesi. Dunque, la crescita dei prezzi al consumo sembra destinata ad impennarsi ulteriormente.

La crisi dell’Iran si è aggravata a gennaio, quando l’Unione Europea ha imposto sanzioni a carico dei pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, resisi responsabili di centinaia di morti durante le proteste. Andando indietro nel tempo, è con il 2018 che la situazione inizia a precipitare.

L’allora presidente americano Donald Trump ritirava gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare siglato a fine 2015 tra Teheran e amministrazione Obama. Veniva ripristinato l’embargo contro le esportazioni di petrolio, principale fonte di entrata di dollari nel paese. Le riserve valutarie si assottigliano e il regime è costretto a imporre restrizioni alle importazioni di beni anche essenziali. La carenza dell’offerta fa schizzare i prezzi. Oggi, più della metà della popolazione vive in condizioni di relativa povertà.

Crisi rial accelera

L’anno scorso, per impedire il prosciugamento delle riserve valutarie e rimpinguare le casse dello stato, Teheran tagliava i sussidi sulle importazioni di alcuni beni di prima necessità. Prezzi su e cambio giù. Pensate che prima della Rivoluzione Islamica nel 1979 per un dollaro servivano appena 70 rial. Da allora, la valuta persiana ha perso quasi il 100% del suo valore.

Negli ultimi mesi, l’accelerazione della crisi del rial è dovuta anche al blocco dei trasferimenti di dollari dalle banche americane a quelle irachene sui sospetti che andassero a finire in mani iraniane. E non meno impattante è stato l’arrivo dei talebani al potere in Afghanistan, dove prima esisteva un corridoio che consentiva all’Iran di accedere informalmente alla valuta straniera. Ufficialmente, un dollaro si compra per poco più di 42.000 rial, ma sul mercato nero la valuta locale vale fino a 14 volte in meno. Il sistema inefficiente dei cambi perpetua inflazione e crisi economica.

Teheran bussa alla porta di Pechino

Nel tentativo di porre un freno alla crisi dell’Iran, Raisi si è recato in visita ufficiale in Cina a metà febbraio. E’ stata la prima volta per un presidente iraniano dalla Rivoluzione Islamica. I rapporti con Pechino non sono stati storicamente buoni, ma la necessità spinge il regime nelle braccia di Xi Jinping. Peccato che il governo cinese non abbia reagito come da attese.

In un comunicato ufficiale, ha auspicato il raggiungimento di un nuovo accordo sul nucleare con gli Stati Uniti e la soluzione all’annoso problema dell’occupazione di tre isole strappate nel 1971 agli Emirati Arabi Uniti. Xi non vuole perdere alleati appena conquistati nel Medio Oriente, tra cui l’Arabia Saudita.

Dopo tutto, Pechino sta già facendo molto per sostenere l’economia iraniana, comprando petrolio in barba alle sanzioni dell’Occidente ed esponendosi così a rischi di ritorsione da parte di Washington. Con l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, la Repubblica Islamica sperava di ottenere un nuovo accordo sul nucleare in tempi brevi. Complice la guerra russo-ucraina, le attenzioni degli Stati Uniti sono perlopiù rivolte altrove da più di un anno. Le posizioni americane in politica estera non sono cambiate granché neppure verso la Cina. A questo punto, a parte masticare amaro sulle ritrosie cinesi nel sostenere l’economia iraniana a colpi di investimenti, Teheran ha come unico riferimento la Russia. Ma Vladimir Putin non può offrire molto, isolato e colpito anch’esso da potenti sanzioni occidentali.

Per concludere il puzzle, c’è la crisi dei due “protettorati” storici dell’Iran: Siria e Libano. La prima è stata travolta dalla guerra civile, la seconda da una delle più gravi crisi economiche nel mondo da secoli per usare la definizione della Banca Mondiale. Il potere geopolitico del regime di Khamenei si sta indebolendo sempre più. Ciò accresce la repressione interna per mettere a tacere le voci critiche. Con la conseguenza che basta scoprire il ciuffo da sotto il velo e anche solo frequentare una scuola per finire vittime della ferocia dello stato.

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