Chissà se ieri mattina, quando in Italia erano le 14.30, il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, abbia acceduto puntualmente al sito del Bureau of Labour Statistics per verificare il dato sull’inflazione a novembre negli Stati Uniti. Era molto atteso da settimane, specie dopo che l’indice dei prezzi al consumo era sceso marcatamente in ottobre dall’8,2% al 7,7%. Le attese erano per una ulteriore discesa al 7,3% annuale e per un incremento mensile dello 0,3%. E’ andata meglio delle previsioni: l’inflazione è scesa al 7,1% e i prezzi su base mensile sono cresciuti solamente dello 0,1%.

Un tasso così basso non si vedeva dalla fine dello scorso anno.

Le borse europee hanno subito consolidato i guadagni, mentre i futures a Wall Street viravano al rialzo. Nel frattempo, il rendimento decennale americano sprofondava fino a un minimo del 3,44% dal 3,61% di poco prima. Analogo l’andamento in Europa, dove il BTp a 10 anni crollava dal 3,86% fin sotto il 3,70% e lo spread scendeva a 182 punti base o 1,82%.

Inflazione USA e previsioni tassi FED giù

Dall’apice del 9,1% toccato nel giugno scorso, l’inflazione americana è scesa di due punti percentuali esatti. Non tantissimo in cinque mesi, se consideriamo che la FED ha alzato i tassi d’interesse per sei volte di seguito e per 375 punti base cumulati, vale a dire del 3,75%. E oggi quasi certamente lo farà per la settima volta di un altro mezzo punto percentuale. Ma almeno Powell può chiudere l’anno avendo rassicurazioni circa il fatto di essere sulla strada giusta.

In questi mesi, analisti e investitori ne hanno dette di tutti i colori. C’è chi ha rimproverato (giustamente) al governatore di essere intervenuto troppo tardi e con fin troppa prudenza. C’è chi, al contrario, ha profetizzato il crollo dell’economia americana a causa della stretta monetaria. La verità è che ancora oggi i tassi FED in termini reali restano negativi per oltre il 3%.

Ma il calo dell’inflazione dell’1,10% cumulato in due mesi e il contestuale aumento nominale del costo del denaro stanno aumentando quest’ultimo anche in termini reali, avvicinandolo allo zero.

Prima della pubblicazione del dato, secondo i futures di CME Group il mercato si attendeva un rialzo dei tassi FED fino al 5,25% entro la metà dell’anno prossimo. E successivamente ci sarebbero due tagli dei tassi per complessivi 50 punti o 0,50% al dicembre 2023. Dopo la lettura, le previsioni si sono abbassate: tassi FED intravisti fino a un massimo del 5% e successivamente tagliati al 4,50% entro l’anno prossimo. Molto meno marcate le variazioni per le aspettative sui tassi BCE.

Buona notizia anche per BCE

Già stasera Powell dovrebbe addolcire la sua retorica, aprendo a un rialzo dei tassi ai prossimi appuntamenti più lento. Considerato che saliranno nelle prossime ore al 4,50%, resterebbero teoricamente due altri rialzi dello 0,25% ciascuno. Con la speranza che l’inflazione, anche grazie al cosiddetto “effetto base”, nei prossimi mesi continuerà a scendere in misura marcata, rendendo possibile la sospensione della stretta già nella primavera prossima.

Per la BCE, che domani riunisce il board per l’ultima volta quest’anno, il dato americano si rivela essenziale. Francoforte ha iniziato la stretta con quattro mesi di ritardo rispetto alla FED e ha sinora alzato i tassi solo al 2%, a fronte di un’inflazione al 10%. Tuttavia, le buone notizie Oltreoceano le consentono di respirare aria di cauto ottimismo per il futuro, sebbene la crisi dell’energia nel Vecchio Continente rischi di provocare un’inflazione più persistente di quella americana. L’istituto annuncerà anche i criteri con cui dal 2023 inizierà a ridurre il bilancio. I reinvestimenti dei bond acquistati con il “quantitative easing” diverranno quasi certamente parziali.

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