L’inflazione è diventata la principale sfida per governi e banche centrali sin dall’inizio dell’anno. Qualche giorno fa, il governatore della Banca Centrale Europea (BCE), Christine Lagarde, ha coniato un termine nuovo per descrivere la situazione economica attuale dell’Area Euro: “permacrisi”. Ha voluto fare riferimento all’incertezza generale che serpeggia da anni tra i cittadini per effetto di pandemia, crisi energetica, inflazione e guerra. Per quanto concerne il suo operato, ha spiegato, non lesinerà alcuno sforzo per combattere il carovita.

Le notizie dal fronte prezzi, tuttavia, non migliorano. Se è vero che il tasso d’inflazione nell’Eurozona a novembre è sceso al 10% dal 10,6% di ottobre, gli analisti indipendenti prevedono il rischio di valori elevati per un periodo ancora lungo. Nello scenario di base, l’agenzia Standard & Poor’s stima il 5,7% per il 2023, il 2,6% nel 2024 e l’1,9% nel 2025. Ma se la guerra tra Russia e Ucraina si protraesse e i prezzi dell’energia restassero alti, nello scenario peggiore l’inflazione sarebbe del 7,4% nel 2023, del 3,6% nel 2024 e del 2,4% nel 2025.

E in Italia? Nello scenario di base, inflazione sarebbe rispettivamente del 6,1%, 2,3% e 2%. Nello scenario peggiore, salirebbe al 7,2%, 3,3% e 2,6%. Tenendo presente anche solo lo scenario di riferimento per S&P, ricaviamo che l’inflazione nel nostro Paese l’anno prossimo scenderebbe solo al 6,1% contro l’8% circa di quest’anno e il 4,3% programmato dal governo. In appena un biennio (2022-’23), l’indice dei prezzi al consumo risulterebbe così salito di quasi il 15%.

Inflazione giù a costo di una crisi

Le famiglie stanno già risentendo negativamente di questo andazzo. Le vendite al dettaglio nel trimestre agosto-ottobre sono aumentate in valore dello 0,4% congiunturale, ma diminuite in volume dell’1,2%. Ad ottobre, giù dello 0,4% su settembre e su base annua si registra un aumento in valore dell’1,3% e un crollo in volume del 6,3%. Cosa significa? Gli italiani stanno spendendo di più, a fronte di minori acquisti.

La differenza la dà proprio l’inflazione.

Il concetto di “permacrisi” in sé appare deprimente. Il neologismo lagardiano mette insieme due termini: “crisi” e “permanente”. Come per dire che siamo dinnanzi non ad una congiuntura sfortunata, quanto a un mix di eventi che strutturalmente stanno colpendo l’economia europea. E se le cose andassero peggio del previsto, la BCE non potrà restare con le mani in mano. Lo stesso vale per le altre banche centrali. Dunque, l’alta inflazione persistente sarebbe combattuta a colpi di rialzi dei tassi e restrizione alle condizioni monetarie fintantoché la domanda non ne uscirebbe colpita al punto da deprimere i prezzi (e l’economia).

In altre parole, le banche centrali puntano a una recessione di lieve entità per ottenere un processo di disinflazione più veloce nei prossimi trimestri. Se ciò non bastasse, stanno già preparandosi mentalmente a tollerare anche una qualche crisi più profonda. Per ovvie ragioni dovrebbero vedersela con i governi, che non ci pensano a passare come capri espiatori. Il rischio che le due parti non collaborino esiste. Lagarde ha dichiarato chiaro e tondo che serve una politica fiscale “coerente con la politica monetaria”. Dunque, aiuti mirati e temporanei a famiglie e imprese contro il carovita. Altrimenti, ha avvertito, la stretta sui tassi sarà più dura di quanto scontato dal mercato.

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