L’Argentina avrà anche vinto la Coppa del Mondo in Qatar, ma i problemi della sua economia non fanno che aggravarsi. Il dato sull’inflazione a dicembre, pubblicato venerdì scorso, è risultato agghiacciante. I prezzi al consumo sono esplosi del 94,8% su base annua e hanno accelerato a +5,1% rispetto a novembre. Era dal 1991 che non si vedeva un dato così alto. In pratica, il costo della vita è raddoppiato nell’ultimo anno. Un duro colpo all’amministrazione Fernandez, che ad ottobre rischia di essere disarcionata alle elezioni presidenziali.

Il ministro dell’Economia, Sergio Massa, aveva fissato al 60% il limite a cui, a suo avviso, l’inflazione in Argentina si sarebbe portata quest’anno. E la crescita mensile dei prezzi sarebbe dovuta restare sotto il 3%. Gli analisti indipendenti, invece, stimano per fine anno un tasso prossimo al 100%.

Da poche settimane, l’Argentina ha ottenuto un’ennesima tranche di 6 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). Da marzo, gli aiuti dell’ente sono arrivati a 23,5 miliardi. Al termine del programma di assistenza di 30 mesi, saranno pari a 44 miliardi. Mai nessun esborso è stato così alto per l’istituto verso un singolo paese. E questo è il tredicesimo accordo siglato con Buenos Aires dal ritorno alla democrazia nel 1983.

Vecchi vizi dell’Argentina restano in piedi

I risultati continuano a non vedersi, anche perché l’Argentina trova sempre il modo di non rinunciare ai vecchi vizi. La banca centrale ha alzato a dicembre i tassi di riferimento al 75%. In termini reali, però, restano profondamente negativi di circa il 20%, alla luce dell’ultimo dato sull’inflazione. La massa monetaria non fa che galoppare. Nell’ultimo anno, risulta cresciuta di quasi il 60%. La media annua nel quinquennio supera il 50%. Praticamente, il governo ha bisogno di indebitarsi per finanziare la spesa pubblica e la banca centrale stampa moneta per coprire tali “buchi” di bilancio.

Una perversione, che ha decimato il valore dei pesos. Il tasso di cambio ufficiale si è deprezzato del 42,5% nell’ultimo anno. Servono 181 pesos per 1 dollaro americano. Al mercato nero, però, il famoso “dolar blue” vale 361 pesos. In pratica, il valore reale del cambio risulta dimezzato rispetto a quello fissato ufficialmente dalla banca centrale. Pensate che prima della svalutazione di fine 2015, ancora il cambio si aggirava intorno a 9,50. E all’inizio del millennio, prima del drammatico default di inizio 2002, vigeva la parità di 1:1.

Inquietante che sia, non ci saranno verosimilmente novità positive per l’economia argentina almeno fino alle prossime elezioni. Difficile che i peronisti, che già hanno perso la maggioranza al Congresso dopo decenni, abbiano voglia di tagliare il deficit e alzare i tassi d’interesse fin sopra l’inflazione per cercare di stabilizzare cambio e prezzi. Né vorranno svalutare il peso, come richiesto dall’FMI e operazione fondamentale per eliminare il confuso sistema dei cambi e consentire all’economia di tendere all’equilibrio con l’estero. L’indipendenza della banca centrale dal potere politico è chiaramente scarsa. Le riserve valutarie non sono ancora scese a livelli allarmanti – bastano per quasi 5 mesi di importazioni – grazie agli aiuti dell’FMI. Ma la situazione è tragica e all’orizzonte non s’intravede alcun segnale di miglioramento.

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