Il sultano dell’Oman, Qaboos bin Said, è morto la scorsa settimana all’età di 79 anni e dopo 50 anni di sultanato. Era arrivato al potere nel 1970, grazie a un colpo di stato ordito contro il padre Said bin Tamuir con l’aiuto del Regno Unito, dove si trovava per motivi di studio. Lascia un’eredità di gran lunga migliore di quella che si ritrovò a gestire mezzo secolo fa. A quei tempi, l’Oman era un sultanato medievale, dove la musica era bandita e non era consentito nemmeno indossare occhiali da sole, né usare l’ombrello o godere dell’elettricità.

Su un territorio grande poco più dell’Italia, poi, appena 10 km di strade risultavano asfaltati. Sotto il defunto sultano, le libertà individuali sono state garantite e quelle politiche di molto ampliate, per quanto in forma ristretta. L’economia si mostra relativamente ricca e moderna con un pil pro-capite che sfiora i 18.000 dollari.

A succedergli è l’ex ministro della Cultura, il cugino Haitham bin Tariq, il cui nome era stato scritto in busta chiusa dallo stesso bin Said, non sposato e senza figli. E sembra proprio che la successione sia stata designata per favorire le riforme economiche nel sultanato, dove i problemi non mancano. Anzitutto, c’è un’eccessiva dipendenza dal petrolio e dalle esportazioni di gas. Gli economisti stimano che l’Oman avrebbe bisogno di quotazioni del greggio intorno agli 85 dollari al barile per far quadrare i suoi conti pubblici, circa una ventina in più dei livelli attuali.

Ancor prima che le quotazioni crollassero dai 115 dollari toccati nel giugno 2014, Muscat era in deficit. Tant’è che in pochi anni è passata da un debito del 5% a uno del 60% del pil. Se il 2019 dovrebbe essersi chiuso con un disavanzo del 6,7%, per quest’anno ci si attende una risalita all’8,4%. Insostenibile per un governo, che pure riesce facilmente a rifinanziarsi sui mercati internazionali, nonostante i suoi bond siano valutati come “junk” o “spazzatura” dalla agenzie di rating.

Rassicurante è la posizione dell’Oman sul piano geo-politico come stato “nemico di nessuno e amico di tutti”. Lo stesso presidente Donald Trump, commentando la scomparsa, ha definito bin Said “vero amico e alleato” e che “ha mostrato l’importanza di ascoltare tutti i punti di vista”.

Economia troppo petrolio-centrica

In effetti, l’Oman è stato in questi ultimi 5 decenni crocevia diplomatico nella regione, amico di Israele, America e Arabia Saudita, ma anche dell’Iran. E quando di recente Riad e il resto del Golfo Persico hanno isolato diplomaticamente e finanziariamente il Qatar per i suoi legami con Teheran, il sultano non si è schierato, preferendo mantenere una posizione di neutralità. Questa sua specificità positiva, però, rischia di riflettersi negativamente sui conti pubblici, perché a differenza del Bahrein, anch’esso troppo dipendente dal petrolio, nel caso di bisogno non potrebbe confidare sull’assistenza finanziaria degli alleati del golfo, visto che i sauditi si mostrano indispettiti dalle posizioni geopolitiche autonome del sultanato.

La diversificazione dovrà essere un must per il paese da 4,6 milioni di abitanti, di cui 2 milioni sono stranieri. La cosiddetta “Oman Vision 2040” punta proprio a sganciare progressivamente l’economia dal greggio, anche attraverso il potenziamento delle infrastrutture come i porti. I risultati non saranno immediati e nel frattempo non rimpiazzeranno il peso delle esportazioni petrolifere, che valgono la media di un quarto del pil e la quasi totalità delle esportazioni. E malgrado il forte surplus commerciale, le partite correnti segnano un cronico profondo rosso (-8% del pil nel 2019), spia di capitali esteri ancora alla finestra.

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