Il prezzo del petrolio oggi è sceso ai livelli più bassi dal 1999, cioè da 21 anni a questa parte. Le quotazioni del WTI americano sono precipitate stamattina del 19% a un minimo di 14,54 dollari al barile, mentre quelle del Brent hanno accusato un calo molto più contenuto, scendendo pur sempre del 3% a 27,33 dollari, sopra i minimi di 22 dollari toccati a marzo. L’accordo tra OPEC e Russia, basato su un taglio dell’offerta per complessivi 9,7 milioni di barili al giorno, da un lato non convince per l’assenza di trasparenza dei soggetti principali, dall’altro non sarebbe ugualmente sufficiente a riequilibrare il mercato, dato che si stima che in questa fase la domanda starebbe scendendo nel mondo di 25-30 milioni di barili al giorno, a causa dei numerosi “lockdown” imposti dai governi per combattere la pandemia.

Il petrolio non rimbalza, l’accordo russo-saudita sembra acqua fresca

A Cushing, in Oklahoma, principale regione petrolifera negli States, le scorte di greggio accumulate nei serbatoi sono aumentate del 48% da fine febbraio, salendo a 55 milioni. La capacità massima di stoccaggio è stata stimata a 76 milioni di barili. Di questo passo, i serbatoi rischiano di riempirsi del tutto e, a quel punto, le compagnie americane non avrebbero più dove depositare le loro estrazioni in eccesso, un fenomeno presente in altre aree del pianeta, specie in Asia. Nel Texas, alcune qualità di greggio vengono pagate dai clienti non più di 2 dollari, per cui crescono le probabilità che da qui a qualche settimana i produttori si vedano costretti a vendere il greggio gratis o, addirittura, a pagare i clienti per sbarazzarsene, essendo esaurito lo spazio fisico per lo stoccaggio.

E dire che la Cina starebbe raddoppiando l’accumulo di scorte a fini strategici. Stando ai calcoli che sono stati effettuati confrontando con lo stesso periodo dello scorso anno i dati delle importazioni, sommate alla produzione interna e detratti i barili raffinati, emergerebbe che Pechino stia accantonando in forma di scorte oltre 900.000 barili in più ogni giorno, portandole a poco meno di 2 milioni.

E’ evidente come questa forma di domanda aggiuntiva non stia minimamente bastando a compensare il forte calo dei consumi mondiali.

Prezzi bassi anche nei prossimi mesi

A pagare il prezzo di questa condizione sono le compagnie americane, specie quelle attive nelle estrazioni di “shale”. Mediamente, avrebbero bisogno di non meno di 40 dollari al barile per coprire i costi, mentre qui siamo dinnanzi a un prezzo di mercato di circa tre volte inferiore. A rischio vi sono la sopravvivenza finanziaria delle stesse e migliaia di posti di lavoro. E ad oggi, le aspettative restano molto “fredde” anche per il resto dell’anno. I contratti “futures” sulle consegne per dicembre vengono chiusi a una media di 33,55 dollari e per il lontano dicembre del 2023 si registrano contrattazioni ad appena 41 dollari, segno che pur di liberarsi di greggio, alcune compagnie starebbero “svendendo” il petrolio anche per i prossimi anni.

Perché il crollo del petrolio manda nel panico Trump

Del resto, mai nella storia si era registrata una caduta così veloce e significativa dei consumi petroliferi nel mondo. E così, il cosiddetto “contango” – la differenza tra i prezzi spot e i prezzi futuri – s’impenna a oltre 18 dollari per le consegne a 8 mesi, ma già supera gli 8,50 dollari per giugno e sfiora i 15 dollari per luglio. Insomma, c’è molta offerta per l’oggi e solo in apparenza possiamo parlare di ottimismo per i prossimi mesi, dato che effettivamente i livelli a cui tenderebbero i prezzi resterebbero dimezzati a fine anno rispetto ai livelli di apertura di questo incredibile 2020.

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