Dopo otto settimane consecutive di crescita, il petrolio ha invertito leggermente la tendenza nell’ottava appena conclusa. Ieri, il WTI americano è sceso sotto la soglia dei 90 dollari al barile per la prima volta dal 10 febbraio, perdendo più del 2%. Anche il Brent ha ripiegato, pur restando sopra 91 dollari. E questo, nonostante ai confini tra Russia e Ucraina si siano registrati alcuni bombardamenti. I venti di guerra continuano a spaventare i mercati, ma venerdì è arrivata la notizia, fatta trapelare da fonti diplomatiche, che USA e Iran sarebbero più vicini a un accordo sul nucleare.

Gli analisti si aspettano che l’amministrazione Biden, pressato dall’alta inflazione a ridosso delle elezioni di metà mandato a novembre, ponga fine all’embargo contro Teheran, consentendogli nuovamente di esportare petrolio.

Se ciò avvenisse, sul mercato affluirebbero più barili ogni giorno. Quanti? I numeri ci dicono che prima del ripristino dell’embargo nel 2018, l’Iran arrivò a vendere 2 milioni di barili al giorno fuori dai confini nazionali. Nelle ultime settimane, risulterebbe essere risalito sopra 1 milioni di barili. Dunque, vi sarebbe un margine di almeno 1 milione di barili al giorno a disposizione della domanda globale. Tuttavia, riattivarne le esportazioni in breve tempo non sarebbe possibile, a causa di anni di sotto-investimenti nel settore petrolifero domestico.

Va anche detto che l’OPEC ha subito fatto sapere che, nel caso in cui l’embargo contro l’Iran fosse ritirato, la Repubblica Islamica sarebbe coinvolta pienamente nell’accordo del 2020 per ridurre l’offerta. In altre parole, dovrà fare la sua parte e contribuire a mantenere il mercato in equilibrio. Dal punto di vista dell’organizzazione, significa che non potrà approfittare dei prezzi alti per pompare (molto) più petrolio. L’Arabia Saudita, di fatto a capo del cartello e acerrimo nemico dell’Iran, non glielo consentirebbe. Invece, se la Russia attaccasse l’Ucraina, i prezzi di petrolio e gas sarebbero ancora più sotto pressione.

Petrolio a 100 dollari ancora nei radar

Ieri, l’oro ha toccato i 1.900 dollari dopo otto mesi, pur ripiegando successivamente sull’allentamento apparente delle tensioni tra Russia e Ucraina. In euro, il metallo è salito a un margine del 5% dai massimi storici toccati nel 2020. I prezzi di petrolio e oro sono generalmente correlati positivamente ed entrambi negativamente con il dollaro. Il caro greggio fomenta le aspettative d’inflazione, le quali a loro volta inducono il mercato a rifugiarsi nel metallo. E più il dollaro è forte, più costano entrambe le “commodities” in esso denominate, a detrimento della domanda. E viceversa.

Al momento, il petrolio si è allontanato dalla soglia dei 100 dollari a cui si era avvicinato pericolosamente all’inizio di questa settimana. Ma non tiriamo alcun sospiro di sollievo. A parte le tensioni geopolitiche, la domanda continua a crescere, mentre l’offerta resta stagnante. Dai 13 milioni di barili al giorno toccati poco prima della pandemia, gli USA non riescono a risalire dagli 11,6-7 milioni attuali. E l’OPEC non sembra volerne sapere di accelerare l’aumento delle estrazioni, godendosi il boom dei prezzi e il netto miglioramento dei conti pubblici nel Golfo Persico dopo anni di austerità legata al crollo delle quotazioni internazionali.

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