Il bilancio è di quelli pesanti: -12,5% in tre settimane. La quotazione del petrolio, nello specifico del Brent, si è schiantata a 80 dollari al barile dai 91,50 a cui aveva chiuso la seduta lo scorso 18 ottobre. A proposito, quello fu il giorno in cui i rendimenti dei bond toccarono i massimi recenti. Questo conferma lo stretto legame che vi è tra mercato obbligazionario e prezzi delle materie prime. Tornando al greggio, è sceso ai minimi da luglio, cioè da oltre tre mesi e mezzo. E dire che soltanto qualche giorno fa Arabia Saudita e Russia avessero confermato i rispettivi tagli all’offerta fino a dicembre.

E’ probabile, a questo punto, che saranno procrastinati almeno a tutto il primo trimestre del prossimo anno.

Cosa sta succedendo al mercato del petrolio? In primis, i timori che la guerra tra Israele e Hamas possa colpire le estrazioni e/o il trasporto nel Golfo Persico stanno scemando. In quell’area transita un quinto dell’offerta globale ogni giorno. La chiusura dei canali di navigazione avrebbe effetti catastrofici sul mercato, ma non sembra lo scenario principale e al momento neppure così realistico. Secondariamente, le esportazioni russe sono salite ai massimi da quattro mesi e negli Stati Uniti si accumulano scorte.

Aumento dei tassi colpisce consumi

Detto in soldoni, di petrolio al momento ve ne sarebbe a sufficienza da soddisfare la domanda. I tagli dell’OPEC+ hanno sì provocato danni all’economia mondiale, facendo risalire le quotazioni fin quasi a 100 dollari al barile. Tuttavia, alla fine si stanno ritorcendo contro chi li ha messi in campo, come avevamo largamente anticipato nella primavera scorsa. Le economie non sono in grado, in questa fase, di tollerare prezzi delle materie prime troppo alti. Oltretutto, tali rincari costringono le banche centrali ad alzare i tassi di interesse, strozzando la domanda.

I paesi produttori hanno vinto il primo round, ma sembra che già stiano avvertendo le conseguenze delle loro azioni.

Il crollo delle quotazioni del petrolio suona senz’altro positivamente per i paesi importatori. Esso riduce l’inflazione e le stesse aspettative su di essa, offrendo sollievo alle banche centrali, che potranno anche verosimilmente porre fine alla stretta sui tassi avviata nel 2022. L’energia è stata l’epicentro della crisi dei prezzi di questo biennio. D’altra parte, il crollo stesso cela cattive notizie per l’economia globale: la domanda scarseggia e forse già la recessione sta mordendo in Europa e si prepara ad arrivare persino negli Stati Uniti. E nel frattempo la Cina ha rallentato vistosamente il passo.

Petrolio giù anche per dollaro e Venezuela

Se volete capire l’effettivo stato di salute dell’economia globale, “follow the commodities”. L’indice Bloomberg che sintetizza l’andamento dei prezzi delle materie prime perde oltre il 9% quest’anno. L’aumento dei tassi sta avendo l’effetto desiderato, avendo fatto sgonfiare buona parte di quella bolla che si era alimentata anche su questo mercato. Il resto lo sta facendo il dollaro, che continua a restare “super” contro le altre valute mondiali. In particolare, lo yuan perde il 5,4% quest’anno; non certo una buona notizia per il petrolio, dato che la Cina è prima economia importatrice al mondo.

Infine, l’apertura degli Stati Uniti verso il Venezuela di Nicolas Maduro ha contribuito a colpire i prezzi. Caracas è prima al mondo per riserve petrolifere, ma anche a causa dell’embargo americano non riesce ad estrarle. La prospettiva di una pur lenta ripresa della produzione domestica avrà indotto parte del mercato a scontare prezzi futuri un po’ inferiori.

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