L’economia italiana, così come la società, è colpita da un malessere di lunga durata. La maggior parte della spesa sociale è destinata a sovvenzionare un sistema pensionistico sperequato che ha consentito a milioni di persone di godere di una pensione sproporzionata rispetto ai contributi versati. Infatti, il 28% della spesa per la protezione sociale sul PIL, il 48,8% è per le pensioni (i dati si riferiscono al 2017, l’ultimo disponibile per un confronto europeo); in relazione al PIL, la spesa sociale italiana è superiore alla media europea (26,8%) ma inferiore a quella della Francia che si colloca al vertice della graduatoria con il 31,7%.

Tra i rischi inclusi nella protezione sociale, il più gravoso per quasi tutti i paesi è la vecchiaia, che assorbe il 40,5% delle prestazioni erogate nell’UE nel 2017; fanno eccezione solo l’Irlanda e la Germania. L’Italia supera di gran lunga la quota media europea, ma in testa alla classifica ci sono Grecia (53,2%), Romania (51,8%) e Portogallo (50,7%). Per le quote di spesa più basse Istat (2020) si distinguono invece l’Irlanda, che dedica meno di un terzo dei servizi erogati (31,8%), il Lussemburgo (32,0%) e la Germania (32,2%). I sindacati italiani rappresentano i lavoratori “privilegiati” (cioè, dipendenti pubblici e anziani che godono di contratti protetti) e pensionati. Tra le maggiori organizzazioni sindacali sono in pensione la maggioranza assoluta degli iscritti alla Cgil e alla Cisl e un quarto di quelli della Uil. Ciò rappresenta una percentuale molto più alta rispetto al resto d’Europa, dove i pensionati sono in media il 10%, con punte del 15% in alcuni paesi.

In tutta la Germania, 1,7 milioni di pensionati sono iscritti ai sindacati, che è poco meno della metà dei 3 milioni di pensionati iscritti alla sola CGIL. In Italia sono così tanti i pensionati iscritti ai sindacati che il nostro Paese domina senza contrasto la FERPA, l’unione europea dei pensionati: su 10 milioni di iscritti da tutto il continente, ben 6 milioni sono italiani (per questo motivo, sono ormai quindici anni che il segretario della FERPA è sempre italiano).

Questo processo di spostamento dal lavoro alla rendita non è unico dei sindacati ma è trasversale a tutta la società italiana. 

Ciò è aggravato da un “ambiente imprenditoriale non meritocratico che alimenta una scarsa familiarità con l’imprenditorialità ambiziosa e una cultura piuttosto chiusa”. La Banca d’Italia ha riportato elementi aggiuntivi alla spiegazione del motivo per cui l’Italia dal paese europeo più dinamico nel secondo dopoguerra è diventata un’economia al rallentatore negli ultimi decenni. In sostanza si tratta di invecchiamento, evasione fiscale, qualità ed efficacia della burocrazia, qualità e competitività dei servizi di mercato (soprattutto per i servizi professionali), inefficacia dell’esecuzione dei contratti e lentezza dei procedimenti giudiziari.

Barone e Cingano (2011), utilizzando gli indicatori del regolamento sul mercato dei prodotti (PMR) dell’OCSE, riferiscono che un alto grado di restrittività nelle industrie di regolamentazione dei servizi influisce in modo significativo sul valore aggiunto, sulla produttività e sulle esportazioni di quelle industrie (tipicamente manifatturiere) che utilizzano tali servizi come ingressi. Diversi studi confermano che un basso carico normativo favorisce le imprese più produttive cf. Andrews e Cingano (2014); Arnold et al. (2011) e che l’elevato onere normativo riduce gli investimenti in società di capitali basate sulla conoscenza cf. Andrews et al. (2015). Una riduzione degli indici PMR, dovrebbe mirare a ridurre le rendite monopolistiche, favorendo la concorrenza e l’ingresso di nuove imprese. Ciò è particolarmente vero per le TIC, dove la regolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi sono fattori chiave per la crescita della produttività e per le loro differenze in modo che una regolamentazione rigorosa abbia un effetto deterrente su ICT.

Gli operatori storici si oppongono ai mercati e prendono il controllo delle attività produttive cf. Rajan e Zingales (2004).

I cosiddetti diritti acquisiti e le legittime aspettative rendono il Paese sclerotico, tanto che anche le concessioni demaniali per le spiagge sono impossibili da riformare. Tra le tante procedure di infrazione avviate dall’UE nei confronti dell’Italia, la prossima potrebbe arrivare a breve, visto che la proroga delle gare per le concessioni balneari fino al 2033 è contraria alla direttiva europea Bolkestein (2006/123 / CE) che prevede la liberalizzazione dei servizi in mercato interno dell’UE. Entro maggio 2017 gli Stati membri avrebbero dovuto bandire le concessioni rilasciate negli anni dagli enti locali, dando la possibilità di aprire un’attività commerciale su un’area pubblica a tutti i cittadini europei, senza limite di nazionalità, in qualsiasi paese dell’UE. In Italia cresce il numero delle concessioni balneari a fronte di affitti irrisori. Nel 2016 lo Stato ha raccolto poco più di 103 milioni di euro dalle concessioni contro un fatturato stimato da Nomisma di 15 miliardi di euro all’anno. Tuttavia, guidata da una leadership innovativa (riforme Bersani, e spinta dalla crisi economica), l’Italia ha introdotto cambiamenti volti ad aumentare la concorrenza nei settori dei prodotti e dei servizi per colmare il divario tra l’indice PMR del paese e la media OCSE.

Il sistema giudiziario e l’ambiente legale sono anche responsabili di consentire alle imprese di operare in modo efficiente alla loro scala ottimale. Ciò vale soprattutto per le imprese con un’elevata percentuale di beni immateriali, come il capitale intellettuale e i beni di conoscenza, che sono fattori fondamentali dell’innovazione. Procedimenti giudiziari gravosi e la lentezza del processo incidono negativamente sull’offerta di credito alle famiglie e alle imprese.

Contributo del Prof of Financial and Acturial Mathematics, Giuseppe Orlando