Il pil italiano rischia di crollare del 13% quest’anno. Parola di Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, che presentando il Rapporto annuale ha paventato il timore altresì di una ripresa economica lenta per il nostro Paese. E dire che alla fine del 2019, in termini reali il prodotto interno lordo doveva ancora recuperare circa il 4% rispetto ai livelli raggiunti nel 2007, ultimo anno prima della devastante crisi finanziaria mondiale. A conti fatti, alla fine del 2020 l’Italia potrebbe scivolare a oltre 17 punti percentuali sotto i livelli di ricchezza prodotti nel 2007, tornando agli stessi livelli del 1995, quando la popolazione residente, però, ammontava a circa 3,5 milioni in meno.

In altre parole, stiamo precipitando verso una condizione di vita del tutto simile a quella di inizio anni Novanta.

Cosa succede all’Italia se il pil crolla del 13% come avverte Visco (Bankitalia)?

Perdere un quarto di secolo significa “bruciare” speranze e prospettive di una intera generazione. Secondo le stime di base della BCE, l’Eurozona recupererà le perdite provocate dal Coronavirus nel 2023. L’Italia è generalmente più lenta, come dimostra la crisi del 2008. Anche solo immaginando che riuscissimo stavolta a recuperare alla stessa velocità degli altri, rimarremmo pur sempre indietro di altri 4 punti rispetto ai livelli di pil di 13 anni fa. E anche solo scommettendo su una crescita tendenziale del 2% all’anno per il biennio successivo, solamente nel 2025 saremmo stati in grado di riportarci ai dati reali del 2007, cioè 18 anni dopo.

Una generazione “bruciata”

Come avrete capito, stiamo dipingendo uno scenario ottimistico e in base al quale avremmo che un italiano sia nato e diventato maggiorenne, vivendo in un’economia che nel frattempo non sarebbe cresciuta di un solo centesimo. Nel peggiore dei casi, questo italiano non solo diventerà maggiorenne, ma avrà il tempo di laurearsi e forse anche (si spera) di entrare nel mondo del lavoro, ma l’economia sarà sempre agli stessi livelli di quando è nato.

Siamo in presenza di una preoccupante e gravissima stagnazione secolare, perché la non crescita non significa solamente non migliorare, ma compiere passi indietro, nei confronti degli altri e anche all’interno dello Stivale. Senza un aumento del pil non c’è creazione netta di posti di lavoro, per cui i giovani vedono ritardare l’ingresso nel mercato e gli occupati ristagnare i loro redditi.

L’assenza di crescita priva, poi, lo stato di adeguate risorse con cui fronteggiare alcuni aumenti obbligati di spesa, come nella sanità. Di conseguenza, si innesca una spirale perversa per la quale meno si cresce e più la pressione fiscale sale e meno ancora si cresce. Questo circolo vizioso è diventato un incantesimo difficile da spezzare. Servirebbe gettare il cuore oltre l’ostacolo e segnare una linea netta con il passato, anche al costo di subire sul piano politico le conseguenze di una temporanea impopolarità alimentata dai ceti che verrebbero colpiti tagliando le sacche di sprechi e di residui privilegi che gravano sull’economia. L’alternativa è la rivolta. Da qui all’autunno, se l’Italia non sarà più nelle condizioni di sostentare le ampie fasce della popolazione rimaste senza redditi a causa della lotta alla pandemia, non ci saranno “lockdown” e divieti di assembramento che tengano. Bisogna agire in fretta, perché la gravità della situazione impone scelte immediate ed epocali.

L’economia italiana non è in crisi, ma in depressione

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