Sempre più vicino alla parità, soglia che raggiungerebbe forse anche prima delle previsioni degli analisti, secondo le quali avverrebbe verso la fine dell’anno. Il cambio euro-dollaro è sceso in settimana ai minimi dal 2002 e sotto 1,02. Man mano che i timori sulla recessione economica hanno prevalso su quelli legati all’inflazione, la moneta unica non ha fatto che indebolirsi. Analogo il trend contro il franco svizzero: cross sotto la parità per la prima volta dal gennaio 2015. Non è un buon momento per l’euro, travolto sui mercati forex da una guerra che sta spegnendo la ripresa dell’Eurozona dopo la pandemia e una politica monetaria in ritardo sul rialzo dei tassi rispetto a tutte le altre grandi banche centrali, ad eccezione di quella del Giappone.

Le due fasi del cambio euro-dollaro

Il mercato scommette sull’ingresso dell’Eurozona nella recessione prima degli USA. Per questo si aspetta che la BCE alzi i tassi di poco nei prossimi mesi. Nel frattempo, la Federal Reserve li avrà portati su livelli impensabili per l’unione monetaria: 2,50% a fine luglio e probabilmente al 3% o sopra entro settembre. Sta di fatto che il cambio euro-dollaro cede perché i capitali si dirigono laddove i tassi d’interesse si mostrano più remunerativi.

Tuttavia, la sola congiuntura economica ci racconta una verità parziale sul cambio euro-dollaro. Guardando al grafico da inizio Millennio ad oggi, ci accorgiamo dell’esistenza di due grandi fasi. La prima durò dai primi anni Duemila fino al crac di Lehman Brothers nel 2008. In essa il cambio euro-dollaro salì progressivamente da 0,83 a 1,60. In pratica, registrò un apprezzamento di quasi il 50% tra i valori minimi e massimi. Dopodiché, assistiamo a una nuova fase nella quale l’euro non ha fatto che indebolirsi contro il dollaro, pur con un andamento tutt’altro che lineare.

Dall’apice toccato nel 2008, arretra di circa il 36%.

Cosa è accaduto e continua ad accadere? I mercati dei capitali premiarono la moneta unica a distanza di qualche anno dalla sua nascita ufficiale nel 1999. Vi fu per circa sette anni abbondante ottimismo sull’Eurozona. E, in effetti, l’unione monetaria procedette senza intoppi in quegli anni. Ma con l’arrivo della crisi finanziaria mondiale, essa svelò tutte le crepe al suo interno. Si trattava di una costruzione incompleta, della bella facciata di una villetta dentro tutt’altro che allestita. Gli investitori capirono che prestare denaro alla Grecia non fosse uguale che prestarlo alla Germania, malgrado l’uso di una moneta comune. Iniziò l’ampliamento degli spread, rafforzato dalla pessima gestione delle crisi fiscali in Grecia, Portogallo e, in misura minore, in Irlanda.

Parità ad un soffio

Il cambio euro-dollaro non solo non si è mai più ripreso da allora, ma neppure alla lontana ha puntato a tornare ai livelli pre-Lehman. Se è vero che la divergenza monetaria tra BCE e FED a tratti spiegherebbe l’indebolimento, d’altra parte anche gli USA dal 2008 perseguono una politica di bassi tassi, pur mai negativi come nell’Eurozona. Il punto è che certe forzature avvenute nell’area dipendono dalla frustrazione per l’ormai cronica debolezza dell’economia. Il PIL nell’area è cresciuto al ritmo medio dell’1,4% nel decennio 2010-’19. Non solo è un risultato basso, ma frutto di squilibri eccessivi, con l’Italia a non essere riuscita prima della pandemia a recuperare le perdite accusate dopo il 2007.

La debolezza del cambio euro-dollaro è al contempo congiunturale e strutturale. Congiunturale per le pessime aspettative sui prossimi trimestri, strutturale per l’assenza cronica di crescita e di meccanismi capaci di favorire la convergenza tra gli stati dell’Eurozona. E’ come se il mercato fiutasse il rischio di una qualche crisi nell’area mal gestita e tale da provocare una rottura dell’unione monetaria.

Questo riflettono gli spread. La discesa sotto la parità lancerebbe un allarme simbolico sulla sfiducia che i mercati nutrono verso i policy makers di Francoforte e Bruxelles.

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