Abbiamo intervistato per Investire Oggi Domenico Gravagno, imprenditore attivo nel settore tech, nonché membro di board di diverse tech company “disruptive”. L’oggetto delle domande ha riguardato i cosiddetti “millenials”, i nati tra inizio anni Ottanti e il 2000, generazione a cui apparteniamo il sottoscritto e l’intervistato, che ringraziamo per la sua gentile e pronta disponibilità.
1) Lei è attivo nel campo delle start-up tecnologiche. Di recente, ha scritto che la generazione dei millenials sarebbe affetta da svariati problemi, tra cui l’impazienza.
Ci spiega meglio?
Ci tengo a precisare che il post che ho scritto sul mio profilo Medium è frutto di un’analisi fatta su diverse ricerche e un video in particolare di un noto sociologo e autore statunitense (Simon Sinek). Da tali contenuti emerge il fatto che, tra le varie cose, la generazione nata tra i primi anni 80 e il 2000, sia caratterizzata da una costante forma di impazienza su più o meno ogni aspetto della vita. Personalmente sottoscrivo questo pensiero comunque, sottolineando il fatto che oggi è difficile far capire ai giovani che non si può avere tutto subito. Che sia il successo di un’impresa, di un percorso lavorativo, di una relazione, il tempo e la costanza sono degli elementi fondamentali. Qualcosa che oggi i nati in questa generazione non sembrano né comprendere, né accettare. Si cerca la “gratificazione immediata” e non si è disposti ad aspettare che il tempo faccia maturare i risultati desiderati.
2) I ragazzi italiani sono stati tacciati negli ultimi anni di essere bamboccioni, “choosy” e non ultimo che fosse meglio si togliessero dai piedi e andassero a lavorare all’estero. Non crede che la classe politica li abbia volutamente individuati come capri espiatori per responsabilità proprie o ritiene ci sia del vero in queste accuse-gaffes?
Credo che sia sempre sbagliato generalizzare. Quella dei Millennials è una generazione che indubbiamente è cresciuta con dei privilegi che altre generazioni in passato non avevano.
Privazione, ristrettezza, sacrifici nella quotidianità di tutti i giorni (dal pane in tavola alla possibilità di spostarsi da un luogo all’altro con facilità, etc…), elementi che di solito rafforzano carattere, determinazione e spirito di sacrificio, non fanno proprio parte del background della mia generazione. Tutte cose che i nostri genitori hanno invece vissuto e che li hanno resi un tantino più “preparati” nell’affrontare il mondo una volta lontani dalle rispettive famiglie. Ritengo però sbagliato attribuire la colpa solo ed esclusivamente ai giovani italiani, perché bisogna ammettere che sono stati traditi da una classe politica che aveva offerto loro ben altre prospettive e invece ha lasciato poco o nulla.
3) Nell’ambito in cui opera ha riscontrato una carenza di preparazione o un’insufficiente capacità dei millenials di sfruttare le occasioni che vengono loro offerte? Se sì, quali?
Io lavoro nel mondo digitale e tecnologico e si, facciamo purtroppo fatica ad individuare ed inserire nella nostra azienda risorse veramente preparate e qualificate. Non parlo di “capacità di sfruttare le occasioni”, perché da questo punto di vista la voglia di mettersi in gioco e di assumersi dei rischi per sfruttare le opportunità che si presentano c’è; parlo piuttosto di una preparazione di base piuttosto scarsa e poca capacità e voglia di approfondire, apprendere, specializzarsi in qualcosa ed eccellere. Mi capita spesso di fare colloqui a ragazzi e ragazze che sembrano totalmente spaesati e giungono a quel momento molto, molto impreparati.
4) Rispetto ai giovani stranieri, pensa per caso che quelli italiani abbiano difetti e pregi peculiari nell’ambito lavorativo? E quali?
Gli stranieri godono innanzitutto di una capacità linguistica (l’inglese, in primis) che indubbiamente li favorisce in molti contesti. Anche in questo caso è sbagliato generalizzare e indubbiamente non tutti i giovani stranieri sono migliori degli italiani, anzi, spesso ci si trova a che fare con ragazzi che ricoprono delle posizioni piuttosto importanti, ma senza mostrare competenze particolarmente superiori ad altri che in Italia sono ancora inseriti come stagisti.
È in dubbio che i giovani stranieri vengano abituati dalle proprie famiglie già in giovane età (17-18 anni) a vivere in modo più autonomo e a vedere il mondo come un luogo da esplorare e nel quale vivere. L’attaccamento al territorio, soprattutto nei piccoli centri, è inferiore rispetto agli italiani e ciò li rende più aperti e pronti alle opportunità che il mercato globale può offrire.
5) Giustamente, Lei scrive che i giovani dovrebbero imparare che per raggiungere gli obiettivi ci vuole tempo. Poi, si guarda alla realtà e si scopre che un trentenne italiano, se va bene, stia appena iniziando ad entrare nel mondo del lavoro e che in alcuni ambiti, in particolare, potrà aspirare a un contratto stabile non prima dei 35, se non 40 anni. Non pensa che di tempo ne concedano sin troppo? Non c’è dietro a queste frequenti recriminazioni un fallimento complessivo del sistema-Paese, compresa la classe imprenditoriale?
Bisogna innanzitutto capire se la responsabilità del fatto che a 30 anni si sta ancora entrando nel mondo del lavoro sia del giovane o del sistema. Purtroppo, nella maggior parte dei casi sono i Millenial che concludono molto tardi il proprio percorso universitario e ciò crea un effetto domino – purtroppo negativo – sull’intero percorso lavorativo. Nelle mie aziende, ad esempio, un giovane che a 23/24 anni ha già conseguito una laurea di primo livello e magari iniziato già qualche progetto personale durante il periodo universitario, viene giudicato molto positivamente e nella maggior parte dei casi assunto proprio in virtù di queste caratteristiche. Ciò dimostra che anche in Italia ci si può laureare a 23 anni e affacciarsi al mondo del lavoro già con qualche piccola esperienza lavorativa, anche se “home made”.

Sulle professioni che invece richiedono anni di specializzazione e lunghi percorsi di inserimento, non penso ci sia molto che si possa fare, ad eccezione del settore della Ricerca sul quale però devo ammettere conosco poco, quindi preferisco non esprimermi.

6) Dovendo assumere un ragazzo o una ragazza per lavorare alle dipendenze di una delle start-up di cui è titolare, quali requisiti pretende? E Le è capitato di fare scouting e di non riuscire a trovare dipendenti in linea con le caratteristiche ricercate?

Tutto dipende dal ruolo che stiamo cercando. Di solito, si tratta di profili tecnici (sviluppatori software, designer, etc…) o esperti di digital marketing. L’elemento comune che cerchiamo è sicuramente rappresentato da una grande passione, curiosità e voglia di impegnarsi per creare valore sia per l’azienda che per se stessi. Tutto ciò di solito è collegato alle attività che il candidato svolge direttamente per conto proprio, nel tempo libero e che fa per il puro piacere di scoprire e imparare cose nuove. Questo è di solito un segnale determinante che ci fa valutare positivamente un candidato. Purtroppo, capita spesso di fare scouting di una risorsa per mesi e non riuscire mai a trovare quella giusta.

7) Tutti invochiamo la meritocrazia, ma a Suo avviso nel settore privato esiste a sufficienza in Italia o forse persino l’imprenditore sacrifica i più bravi sull’altare di una logica improntata alla visione corta del risparmio sul lavoro e/o della pace sociale con i sindacati?

In questo caso mi sento di parlare a nome della mia generazione imprenditoriale, che di fatto sarebbe la nuova classe imprenditoriale di questo paese. Io ho 31 anni e sebbene in una fase iniziale dell’azienda ho cercato sempre di trovare un giusto mix tra costi e competenze, oggi ho ben compreso che una risorsa di qualità non può assolutamente essere sacrificata a favore di un maggiore risparmio o migliori rapporti con i sindacati. Uno dei miei mantra è “circondati di persone migliori di te” e le persone migliori di solito sono le più costose, ma sono anche quelle che fanno fare il vero salto di qualità all’azienda. Gli imprenditori della mia generazione che conosco questo concetto lo hanno capito bene e spero continueranno ad alimentare questo processo meritocratico il più possibile, affinché diventi la norma e non l’eccezione.

8) L’alta disoccupazione giovanile rappresenta un dramma al sud, con punte anche superiori al 50% in alcune realtà. La tecnologia funge da grande opportunità per creare occasioni di lavoro, ma taglia fuori chi ha una qualifica bassa. In realtà, però, spesso i giovani disoccupati sono proprio laureati o persino con un master in tasca, molti dei quali costretti ad espatriare. Cosa non va?

Non va la formazione sulla quale questi giovani hanno investito subito dopo la scuola. Una formazione anacronistica, lontana dalle logiche di mercato e che non offre nessun tipo di competenza pratica, spendibile nei contesti lavorativi. Oggi per noi la laurea non è una discriminante; l’aver lanciato un progetto online mentre si era al quarto superiore lo è; avere un profilo Instagram con 20 mila follower e pubblicare un contenuto originale al giorno lo è. La disoccupazione c’è e non si può ignorare, ma oggi i giovani dovrebbero spostare la loro attenzione e le loro energie su professioni e attività formative in linea con il mercato, abbandonando un modello ormai obsoleto che Università ed enti pubblici non riescono assolutamente ad aggiornare. L’auto-formazione sarà il futuro, ma potrebbe essere già il presente e risolvere molti dei problemi occupazionali attualmente esistenti. Anche al sud.

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