Da oggi scatta il taglio dell’IRPEF a favore dei contribuenti con redditi almeno superiori ai 15.000 euro, grazie all’abbassamento dell’aliquota del 27% al 25% e del 38% al 35%. Ma c’è un’altra riforma fiscale in corso d’opera al Parlamento e che, stavolta, agita i sonni di milioni di italiani. Riguarda i fondi pensione e, in teoria, è nata nelle Commissioni Finanze di Camera e Senato con l’intento di favorire gli accantonamenti dei lavoratori al sistema previdenziale integrativo. Tuttavia, l’esito di tale rivisitazione delle norme finirebbe per colpire la futura rendita.

Anzitutto, così come oggi, la riforma invocata da Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera ed esponente di Italia Viva, lascia intatta la soglia di deducibilità fiscale dei premi a 5.164,57 euro. Fino a questa cifra, i contribuenti non pagano le imposte. Il beneficio dipende dallo scaglione di reddito di appartenenza: si va dal 23% sotto i 15.000 euro al 43% sopra 50.000 euro (sopra 75.000 euro fino a tutto il 2021).

Riforma fondi pensione, rendita e capitale a rischio stangata

Stando alla riforma in discussione, però, i fondi pensione non pagherebbero più l’aliquota del 20% sulle plusvalenze realizzate dagli iscritti annualmente. In sé, l’aliquota risulta inferiore al 26% imposta sulla generalità dei proventi di natura finanziaria. Ad ogni modo, essa deprime la rendita futura del lavoratore, in quanto incide sul rendimento annuale. Supponiamo di investire in un fondo pensione che ogni anno riesce a offrirmi un rendimento lordo del 3%. In 30 anni, il premio versato si moltiplicherebbe per 2,42 volte. Ma se annualmente debbo versare al fisco il 20% di tale rendimento, che al netto scende al 2,4%, il premio dopo 30 anni sale di 2,04 volte.

Indubbiamente, quindi, l’eliminazione dell’aliquota del 20% sarebbe una buona notizia. Tuttavia, la fregatura avverrebbe con un’altra proposta di Marattin: tassare la rendita o il capitale con le stesse aliquote IRPEF, che vanno dal 23% al 43%.

Ad oggi, la tassazione varia da un massimo del 15% a un minimo del 9%. L’aliquota effettiva dipende dal numero di anni dei versamenti: sopra 15 anni, ridotta dello 0,3% per ogni anno fino al 35-esimo. Nel migliore dei casi, il futuro pensionato si troverebbe a pagare l’8% in più sulla rendita percepita; nel peggiore, il 34% in più.

Dai calcoli effettuati, si ottiene che il beneficio fiscale derivante dall’eliminazione dell’imposta sulle plusvalenze annuali sarebbe più che compensato dalla maggiore stangata in fase di godimento della rendita o del capitale. Anziché incentivare la previdenza complementare, il Parlamento farebbe uno dei suoi soliti pasticci. D’altra parte, comunque vada a finire la vicenda, ci fa capire quanto sia importante per un lavoratore scegliere uno dei fondi pensione non sulla sola base dei benefici fiscali prospettati dalla rete dei consulenti. Questi non sono mai certi nel tempo. Bisogna investire con la testa rivolta ai risultati passati conseguiti e a quelli futuri prospettati, valutando anche il grado di rischio. Troppo spesso si punta al fattore fiscale per attirare nuove iscrizioni, facendo passare in secondo piano tutto il resto.

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