E’ “un cambiamento radicale” quello che Mario Draghi ha promesso che proporrà alle istituzioni comunitarie per riformarsi. Il suo è stato ieri un discorso quasi profetico, non il primo del genere e che certamente ha attirato le attenzioni della stampa continentale in vista delle prossime elezioni europee a giugno. Già governatore della Banca Centrale Europea (BCE) e premier italiano, un anno fa veniva incaricato dalla Commissione di Ursula von der Leyen di presentare un rapporto sulla competitività. L’analisi di Draghi è impietosa: l’Unione Europea è rimasta indietro rispetto ai due “colossi” internazionali come Stati Uniti e Cina.

Non abbiamo una politica industriale comune, ci siamo concentrati molto su noi stessi e “su cose sbagliate”, siamo dipendenti dai nostri concorrenti in tema di approvvigionamento energetico e delle materie prime e non disponiamo neppure di un mercato unico dei capitali. Tra le righe, come spiegheremo, c’è l’indicazione degli Eurobond come possibile soluzione.

Mercato unico dei capitali con chi ci sta

La situazione è così grave che Draghi ha affermato che non possiamo permettersi il lusso di aspettare una revisione dei Trattati per riformare la governance comunitaria. La sua idea sarebbe di tendere al mercato unico dei capitali con chi ci sta, non necessariamente aspettando il placet di tutti i ventisette stati membri. Una posizione molto simile a quella espressa qualche mese fa dalla Francia di Emmanuel Macron e respinta dalla Germania del cancelliere Olaf Scholz.

Draghi ha fatto presente che abbiamo abbondanti risparmi privati, ma che questi finiscono in buona parte nei depositi bancari e non alimentano la crescita. Al contempo, ha prospettato come soluzione “la capacità di prestito congiunta dell’Unione Europea” per finanziare quelle voci di spesa considerate indispensabili proprio ai fini della crescita e della sicurezza. Il pensiero è rivolto, anzitutto, alla difesa e all’energia, oltre che alla politica industriale più in generale.

In altre parole, gli Eurobond sarebbero una delle soluzioni di cui disporremmo per uscire dalle piccinerie nazionali in cui ci siamo incagliati da decenni a questa parte.

Draghi soluzione di compromesso

Il debito comune non piace né ai tedeschi, né ai loro alleati del Nord Europa. La sola idea disgusta i cosiddetti “paesi frugali”, che temono di finire per pagare la lista della spesa dei loro partner “spendaccioni” del Sud. Non è la prima volta che gli Eurobond sono proposti come un mezzo per superare le limitazioni di bilancio nazionali. L’idea fu lanciata nel 2010 dall’allora ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti. Il collega tedesco Wolfgang Schaeuble rispose “nein, danke”.

Il tema è stato di recente rilanciato anche a livello comunitario, sfruttando il clima di incertezza che regna nella stessa Germania in fatto di conti pubblici e crescita. Draghi non ha citato espressamente gli Eurobond, consapevole che si sarebbe “bruciato” come possibile candidato alla presidenza della Commissione. Il suo è tra i nomi che girano nel caso in cui von der Leyen non ce la facesse ad ottenere il bis. Lo vorrebbe Macron, che lo considera l’uomo giusto per una fase critica come questa. La Germania non si opporrebbe, visto che dal punto di vista del socialdemocratico Scholz sarebbe meglio di avallare la nomina di un esponente del Partito Popolare Europeo.

Eurobond soluzione divisiva in UE

E anche all’Italia di Giorgia Meloni starebbe bene. Draghi diventerebbe una garanzia per Roma nei prossimi cinque anni. Tuttavia, l’ostacolo più grande è dato proprio dalla sua personalità apolitica. Tutti lo accetterebbero come presidente della Commissione, ma nessuno probabilmente lo indicherà come prima scelta. E idee come quelle sugli Eurobond sono viste molto negativamente nel Nord. La Bundesbank fu per otto anni all’opposizione di Draghi nel board della BCE.

Ne avversò il modo di intendere la politica monetaria. I tedeschi temono che dovrebbero fare gli stessi conti con la politica fiscale. Roma non commenta. Mai come adesso servono prudenza e bocche cucite. Nel gennaio di due anni fa, l’ascesa al Colle dell’allora premier s’infranse contro i veti incrociati dei partiti che lo sostenevano al governo. E da non politico, il diretto interessato commise l’errore di auto-candidarsi alla carica. Troppo alto il rischio di ripetere il passo falso.

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