Il mondo naviga su un mare di debiti. Quest’anno, gli USA probabilmente registreranno un deficit del 18% rispetto al pil, mai così alto dal 1945, ultimo anno della Seconda Guerra Mondiale. Nell’Eurozona, complessivamente la situazione appare migliore, con un rapporto debito/pil nel 2019 in area 86%, pur in forte crescita nell’ultimo decennio. Ma trattandosi di un’unione monetaria tra 19 stati, abbiamo a che fare con una media ponderata. E tutte le medie celano spesso profonde divergenze. Così è anche in questo caso.

Se l’Olanda presenta un debito al 50%, in Grecia si arriva al 180% e in Italia si scende solo al 135%. Francia e Spagna sono già prossimi al 100%, mentre la Germania è riuscita a portarsi in pochi anni al 60%, il limite massimo fissato dal Patto di stabilità e ribadito nel Fiscal Compact del 2012.

E se il debito pubblico iniziasse a circolare come moneta parallela?

Il problema è che questi debiti esploderanno nei prossimi mesi, a causa della gravissima crisi economica provocata dall’emergenza Coronavirus, che da un lato priverà gli stati di entrate fiscali, dall’altro costringerà i governi a spendere parecchi quattrini per sostenere le economie e per combattere la pandemia. E quelli solo dei contribuenti non basteranno. Si sta andando verso la più sostenuta corsa all’indebitamento da 75 anni a questa parte. Pensate che la sola Germania ha messo in conto di spendere tra aiuti in denaro sonante e garanzie alle imprese almeno il 16% del suo pil.

Sarà possibile sfoltire i debiti, quando sarà stata superata l’emergenza? L’evidenza empirica suggerisce che ciò accade raramente e, soprattutto, che la discesa del grado di indebitamento è sempre una strada lunga, finita la quale si rischia la risalita per l’arrivo (inatteso o meno) di una nuova crisi. La Germania era passata da un debito del 64% del 2007 all’82% nel 2010, scendendo fino al 60% nel 2019.

E adesso, tornerà a indebitarsi, dopo un quinquennio abbondante di austerità fiscale. E stiamo parlando della più grande economia al mondo meglio messa da questo punto di vista. Eppure, le soluzioni drastiche, diremmo draconiane, per tagliare il debito pubblico esistono. Ecco quali sono.

Inflazione e rinegoziazione

Storicamente, un paese molto indebitato si libera del fardello sgonfiandolo attraverso l’inflazione. Se il pil nominale cresce a ritmi veloci, il rapporto debito/pil diminuisce rapidamente. Certo, se lo stato nel frattempo continua ad accumulare disavanzi fiscali, il beneficio rischia di essere di corto respiro, in quanto gli investitori pretenderanno sulle nuove emissioni rendimenti nominali altrettanto elevati, finendo per far ricrescere lo stock rispetto al prodotto interno lordo. Comunque la si pensi, questa “exit strategy” si rivela socialmente ed economicamente costosa: l’inflazione danneggia i redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) e gli inoccupati, riducendone il potere di acquisto. Inoltre, non consente alle imprese di investire oculatamente nel medio-lungo termine, a causa dell’imprevedibilità dei prezzi futuri.

L’alta inflazione, poi, implica anche un’azione di repressione finanziaria ai danni dei risparmiatori e titolari dei capitali, comprimendone i rendimenti anche sotto lo zero, cioè riducendo il valore dei loro investimenti nel corso del tempo. Un po’ sta avvenendo negli ultimi anni con i ben noti rendimenti negativi, i quali altro non sono che il ribaltamento dei ruoli tra creditore e debitore a favore del secondo.

Un’altra strada consiste nella ristrutturazione del debito pubblico. Le Clausole di Azione Collettiva sin dal 2013 consentono, pur limitatamente, una simile soluzione nell’Unione Europea. Principalmente, essa comporta l’allungamento delle scadenze dei titoli di stato (“roll-over”), il taglio delle cedole, il taglio del valore nominale dei titoli da rimborsare (“haircut”). In teoria, si può benissimo optare per un mix tra tutte e tre le suddette azioni. Effetti collaterali? Tanti.

Gli investimenti di famiglie, banche, assicurazioni e fondi verrebbero zavorrati con contraccolpi potenzialmente violenti sull’economia stessa, allontanando i capitali e rallentando i ritmi di crescita, nonché provocando sconquassi finanziari.

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Monetizzazione del debito

Infine, la monetizzazione. La banca centrale finanzia direttamente le spese del governo o acquista i titoli di stato emessi e man mano che scadono li rifinanzia automaticamente a lungo termine per sottrarli al mercato, magari a rendimenti medi molto bassi per contenere la spesa per interessi del Tesoro. In un certo senso, appare complementare alla repressione finanziaria. Qui, il rapporto debito/pil non avrebbe nemmeno più tanto senso, perché la banca centrale diverrebbe, se non l’unico, tra i principali creditori e terrebbe i costi ai minimi termini. E’ la strada percorsa da Nord America, Europa e Giappone nell’ultimo decennio, anche se scaturita dalla necessità formale di sostenere le aspettative d’inflazione. Con il tempo, l’inflazione ridurrebbe il peso dei debiti da rifinanziare alle scadenze.

Controindicazioni? A parte fornire al governo stimoli sbagliati e indurlo a sovra-spendere, noncurante delle conseguenze, si rischia di alimentare una spirale inflazionistica per la necessità dell’istituto di tenere bassi i tassi e, soprattutto, perché l’indebitamento non avverrebbe più a fronte di una raccolta di capitali (liquidità) sui mercati, bensì attraverso emissioni di moneta. Nel caso dell’Eurozona, poi, poco probabile che questa strada venga accettata a cuor leggero dagli stati fiscalmente virtuosi del Nord Europa, i quali pretenderebbero per il futuro un rigido controllo sovranazionale dei bilanci statali. Come vediamo, non esiste una soluzione miracolosa per abbattere il debito. Se ci fosse, nessuno sarebbe così idiota da privarsene.

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