Un altro colpo all’equità del sistema previdenziale italiano è stato assestato dal governo Draghi, che ha deciso di far confluire l’INPGI nell’INPS a partire dal luglio 2022. L’istituto che eroga le pensioni, spesso d’oro come vedremo, a migliaia di giornalisti italiani avrebbe altrimenti dovuto smettere di pagare gli assegni nei prossimi mesi, a causa del cronico squilibrio dei conti.

Sarà il cosiddetto INPGI 1 a far parte dell’INPS come Fondo speciale di quest’ultimo, vale a dire l’ente che riscuote i contributi dai giornalisti assunti con contratto di lavoro subordinato.

L’INPGI 2, che riscuote i contributi dai giornalisti autonomi, resterà indipendente, in quanto i suoi conti ad oggi risultano in attivo. La ragione è semplice: la platea iscritta all’INPGI 2 è perlopiù giovane, per cui al momento sono in tanti a versare i contributi e in pochi a ricevere l’assegno.

Gli squilibri strutturali dei conti INPGI

L’ex presidente dell’INPS, Tito Boeri, si è scagliato contro tale soluzione, notando come le pensioni medie d’anzianità dei giornalisti si attestino a 80.000 euro e quelle di vecchiaia anticipate a 78.500 euro. E l’economista ha aggiunto che superano molto spesso i 100.000 euro in entrambi i casi. Com’è stato possibile per l’INPGI andare in fallimento dopo decenni a millantare condizioni finanziarie floride anche per il futuro?

Ci sono ragioni strutturali e altre meramente corporative alla base. Nel decennio passati, il numero delle pensioni erogate ai giornalisti in Italia è esploso del 32% a 9.643, mentre il numero degli iscritti è sceso del 17% a 14.500. La massa salariale da cui attingere i contributi ha fatto anche peggio, crollando del 18%. Dunque, pensioni d’oro da pagare e pochi contributi da riscuotere. La categoria è stata travolta dalla rivoluzione digitale, con internet ad avere spazzato via la carta stampata e fatto emergere figure dell’informazione ormai slegate dagli ordini professionali ufficiali.

Pensioni d’oro, giornalisti con regole a sé

Ma esistono anche squilibri frutto di cattiva gestione delle risorse. I giornalisti italiani continuano a poter andare in pensione a 62 anni e con soli 25 anni di contributi. Altro che quota 100 o 102! Inoltre, fino al 2017 il calcolo degli assegni avveniva solamente con il metodo retributivo e utilizzando coefficienti più elevati di quelli applicati per la quota retributiva delle pensioni INPS. Si era arrivati al paradosso che molte pensioni risultassero superiori all’ultima retribuzione percepita, per cui lasciare il lavoro conveniva.

E così, nel 2020 l’INPGI ha chiuso con una maxi-perdita di 242 milioni di euro. Ha pagato pensioni per 576 milioni di euro (59.730 euro in media), incassando contributi per appena 372 milioni. Lo squilibrio strutturale di 188 milioni non aveva più speranza di essere colmato in futuro. Al contrario, sarebbe semplicemente cresciuto con il tempo con l’aumentare del numero dei pensionati. Con l’ingresso dell’INPGI nell’INPS, i diritti acquisiti non saranno toccati. Semplicemente, le perdite saranno sostenute dai quasi 23 milioni di iscritti all’INPS, ovvero lavoratori subordinati del settore privato e pubblico e dai lavoratori autonomi.

Non leggerete probabilmente alcuna autocritica sulla carta stampata e sulle stesse testate online da parte di coloro che sono soliti fare i soloni sui diritti altrui. I giornalisti in pensione continueranno a ricevere assegni sconosciuti alla stragrande parte degli italiani, pur avendo versato relativamente pochi contributi. E continueranno ad andare in pensione con quota 87, in barba a chi deve attendere i 67 anni di età per uscire da lavori ben più faticosi o maturare almeno 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 per le donne), in alternativa a quota 102 dal 2022. Un’iniquità inaccettabile, dato che a pagare dall’anno prossimo saranno tutti gli altri lavoratori.

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