E’ tornato a parlare e a far parlare di sé e ancora una volta lo ha fatto attraverso le colonne del Financial Times, l’autorevole quotidiano finanziario britannico. E’ Mario Draghi, ex governatore della Banca Centrale Europea (BCE) ed ex premier italiano. Da poche settimane si occupa su incarico di Bruxelles di redigere il rapporto sulla competitività nell’Unione Europea. Mai banale, ha voluto avvertire l’Europa che, senza un’unione realmente politica e della difesa, non resterà che un semplice mercato unico.

Ha altresì paventato quasi certamente l’ingresso dell’economia europea in recessione già alla fine di quest’anno. Allo stesso tempo, ha preso nota del fatto che il tasso di disoccupazione nell’area sia sceso al minimo storico del 6,4% e che ciò renderebbe forse la crisi “non destabilizzante”.

Fine modello geopolitico pre-pandemia

Draghi non si è limitato a commentare le vicissitudini presenti. Ha rimarcato come l’economia europea abbia perso competitività negli ultimi venti anni sia nei confronti di Stati Uniti e Cina, ma anche di Giappone e Corea del Sud. A suo dire servirebbe potenziare la produttività del lavoro, ma il continente si mostra carente di manodopera qualificata. Non solo. Il suo è un vero proclama politico quando dichiara “finito” il modello geopolitico su cui si è fondata l’Unione Europea negli ultimi decenni: importazione della difesa e della tecnologia dagli Stati Uniti, dell’energia dalla Russia ed esportazioni in Cina.

Non andremo da nessuna parte, continua Draghi, se continueremo a pagare l’energia due, tre volte i nostri competitor. Dichiarazioni pregne di significato quelle dell’ex capo del governo italiano, che da quando è uscito da Palazzo Chigi ha preferito restare più nell’ombra. E proprio prima di diventare premier aveva rilasciato un’intervista al FT e prima ancora aveva parlato di debito buono al Meeting di Rimini nell’agosto 2020.

Sembra che la tempistica di certe esternazioni non sia del tutto casuale. E, infatti, mancano pochi mesi alle prossime elezioni europee, che rinnoveranno l’Europarlamento e daranno vita a una nuova Commissione.

Bis di von der Leyen non scontato

Chi presiederà l’organo esecutivo di Bruxelles? La tedesca Ursula von der Leyen ambisce ad un secondo mandato, ma bisognerà verificare se avrà i numeri. Nel luglio 2019 riuscì ad essere eletta per il rotto della cuffia e con l’apporto determinante del Movimento 5 Stelle. L’Italia potrebbe diventare ago della bilancia. La premier Giorgia Meloni punta a spostare a destra le alleanze a Bruxelles, anche se non esclude un appoggio all’attuale presidente per ottenere quell’agibilità politica di cui ha bisogno per affrontare i vari dossier nazionali, tra cui crisi dei migranti e conti pubblici. Ma l’eventuale candidatura di Draghi romperebbe gli schemi. In un certo senso, renderebbe vita più facile a tutti per via della sua aura super partes.

Draghi nome di convergenza

Il problema è che difficilmente Draghi si auto-candiderebbe. In teoria il sistema vigente degli Spitzenkandidaten imporrebbe ai partiti di indicare prima chi nominerebbero alla presidenza dopo le elezioni. Draghi, che non è un leader politico, sarebbe così fuori dagli schemi. Tuttavia, si tratta di un sistema mal digerito e non codificato in una vera legge elettorale. Saranno come sempre le trattative tra capi di stato e di governo a tirare fuori il nome del successore di von der Leyen. E l’ex BCE avrebbe notevoli chance di farcela per varie ragioni: è considerato competente, è trasversalmente digeribile e, in quanto italiano, garantirebbe l’equilibrio nella spartizione delle cariche tra i grandi paesi europei.

Al momento, infatti, la Germania ha la Commissione, la Francia la BCE e l’Italia più nulla. Fino ad inizio 2022 deteneva la presidente dell’Europarlamento con David Sassoli.

Siamo fuori dalle stanze dei bottoni e la nomina di Draghi rimetterebbe le cose a posto. Certo, in Germania non hanno buoni ricordi del suo mandato a Francoforte. I critici lo considerano il fautore della politica dei tassi negativi, dell'”uccisione del risparmio” e della futura inflazione. Ma nella bilancia i vantaggi potrebbero superare i costi, anche perché i tedeschi stessi appaiono tutt’altro che convinti del bis di von der Leyen. A succederle ambirebbe anche Manfred Weber, capo dei popolari e che da tempo corteggia Meloni in tal senso. Ma gli mancherebbero i numeri. E in politica, si sa, vincere significa anche solo veder perdere il tuo nemico.

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