Solamente a giugno, occupò le cronache politiche per giorni e giorni con la sua scissione ai danni del Movimento 5 Stelle. Nelle settimane seguenti, era stato considerato il futuro del centro politico italiano. Elogiato da stampa e politici per la sua svolta moderata dopo anni di estremismo anti-casta, Luigi Di Maio non aveva fatto i conti con l’oste. Eppure, al ristorante c’era entrato. Pochi giorni prima delle elezioni era finito sulle braccia dei camerieri di “Nennella”, trattoria napoletana, sulle note di “Dirty Dancing”.

Sembrava volare, mentre è precipitato a terra piuttosto malamente. Nella primissima mattinata di lunedì, lo spoglio esitava la sua sonora sconfitta al collegio uninominale di Napoli-Fuorigrotta. Il ministro degli Esteri è stato quasi doppiato nei consensi da un altro ex ministro dell’M5S, Sergio Costa.

Cronistoria di Luigi Di Maio

Era il 2013, quando un allora giovanissimo Di Maio a soli 27 anni entra in Parlamento e diventa di fatto il portavoce dei 5 Stelle, la creatura politica di Beppe Grillo. Si distingue per capacità di linguaggio, al netto dei numerosi svarioni grammaticali. Approssimativo nei contenuti, ma efficace. Che per un politico è tutto, mica siamo all’università! Passano gli anni e l’ego del ragazzo di Pomigliano D’Arco si gonfia. Nel 2018, vinte le elezioni, l’M5S deve scendere a patti con la Lega per formare il governo. Dovrà rinunciare al proprio candidato, proprio Di Maio, il quale indica il nome di Giuseppe Conte, professore di Diritto all’università e sostenitore “esterno” al movimento.

Diventa vice-premier e per oltre un anno, insieme a Matteo Salvini, è nei fatti il co-gestore del potere, data anche l’inesperienza del neo-premier- Da ministro dello Sviluppo, spinge per lo scontro con la Commissione europea, al fine di ottenere più deficit per il suo reddito di cittadinanza. Nel frattempo, si reca in Francia per appoggiare il movimento anti-macroniano dei gilet gialli.

Quasi come un Che Guevara del nuovo millennio, vuole esportare la sua “rivoluzione” anti-casta.

E’ il luglio del 2019, quando attacca durissimamente il PD, accusato di essere “il partito di Bibbiano” per rassicurare che “con questi non ci voglio avere nulla a che fare”. Un mese dopo, si allea proprio con i dem e trasloca al Ministero degli Esteri. Abbandona d’un colpo i toni populisti, abbraccia l’europeismo e l’atlantismo e difende fino all’ultimo minuto il governo Conte-bis. Finché, nato il governo Draghi, non s’innamora del nuovo premier, diventandone quasi il braccio destro. Sotto sotto emargina Conte e cerca di trasformare i 5 Stelle in una sorta di partito draghiano dell’establishment. A gennaio di quest’anno, in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica, sabota la linea contiana e fa rieleggere Sergio Mattarella, lo stesso contro cui nel 2018 chiese l’impeachment per il diniego di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia. Ennesima giravolta di un ragazzo troppo spregiudicato per passare inosservato.

Sconfitta casalinga

Considerato fino a poco tempo fa a capo dell’ala destra del movimento, si trasforma in un riferimento del campo “progressista”, il trait d’union tra PD e centristi. Pompato da certa stampa, si convince di essere più bravo e furbo di tutti. Divorzia da Conte e Grillo e fonda un suo partito. Un mese dopo, proprio l’ex premier gli serve una vendetta a caldo: elezioni anticipate. Di Maio corre a ripararsi sotto le insegne del PD per non restare fuori dal Parlamento. Ottiene da Enrico Letta un seggio “blindato” proprio nella sua Pomigliano. Non aveva previsto la rimonta dei 5 Stelle, il totale flop del suo partito (0,5%) e, soprattutto, il disgusto diffuso tra gli elettori verso il suo nome.

Trionfo e caduta di Fini, Alfano e Renzi

Eppure Di Maio di esempi da non seguire ne aveva avuti diversi solamente nell’ultimo decennio.

Era capitato nel 2010 al ben più esperto Gianfranco Fini di convincersi di essere troppo bravo. Tenta di abbattere il governo Berlusconi, esce dalla maggioranza e si presenta col suo partito Futuro e libertà. Ottiene così pochi voti da restare senza futuro politico e con tanta libertà di gestire il tempo libero. Da presidente della Camera a dimenticato è stato un attimo.

Qualche anno dopo, uguale sorte sarebbe spettata a tale Angelino Alfano, predecessore di Di Maio alla Farnesina. Da candidato premier in pectore del centro-destra, pur senza “quid”, a stampella dei governi PD con il suo Nuovo Centro Destra, nato da una scissione di Forza Italia. Risultato: fuori dal Parlamento nel 2018 e nessuno ne ha più sentito parlare. Niente paura, oggi fa l’avvocato in un grosso studio di Milano.

E Matteo Renzi? Invincibile finché non è stato vinto dalla sua spocchia. Rottama Letta, prende il suo posto alla guida del governo, ottiene il 40,8% alle elezioni europee nel 2014, ha l’Italia in pugno fino alla fine del 2016, quando perde rovinosamente il referendum costituzionale. Nel 2018 si dimette da segretario del PD dopo la cocente sconfitta elettorale. Un anno e mezzo dopo, fa il salto della quaglia alleandosi con i 5 Stelle per evitare elezioni anticipate e la vittoria del centro-destra. Esce dal PD, fonda Italia Viva, convinto che avrebbe riscosso chissà quale successo. Invece, sarà costretto a commiserare l’alleanza con Carlo Calenda per essere rieletto insieme a un ristrettissimo gruppo di fedelissimi.

Anche Di Maio sedotto e travolto dal potere

Cosa hanno avuto in comune Di Maio, Fini, Alfano e Renzi? Non certo la sfiga. Tutti hanno commesso l’errore di una concezione padronale del consenso. “I voti sono i miei” avranno pensato all’apice dei rispettivi successi politici. Invece, il fattore personale era marginale e semmai contribuiva a dare smalto al marchio di cui erano momentaneamente depositari.

Fini doveva il suo successo ad Alleanza Nazionale, così come Alfano a Forza Italia, Di Maio al Movimento 5 Stelle e Renzi al PD. Una volta separatisi dai loro brand, hanno cessato di esistere come figure credibili, autorevoli e carismatiche. Anzi, tutti hanno dovuto subire l’onta degli insulti, dell’odio delle basi “tradite” e le accuse di trasformismo. Tutti sono risultati finti e la percezione della genuinità è il tratto più rilevante per riscuotere il consenso.

Di Maio, poi, è risultato fin troppo finto, una maschera caricaturale quando accusava i leader del centro-destra di essere “il trio sfascia-conti” o attaccava questo o quest’altro con accuse di putinismo. La sua svolta atlantista ed europeista sarà anche stata sincera, ma maturata così frettolosamente da apparire strumentale e incoerente con il percorso seguito fino a poco prima. L’attrazione per il potere ha giocato per tutti i suddetti ex prodigi della politica italiana un ruolo esiziale nel stroncarne le carriere. Adesso che sul ragazzo di Pomigliano le luci della ribalta iniziano a spegnersi, sarà dura tornare nel buio dell’anonimato. Solo Renzi è riuscito almeno a risparmiarselo. Per capire come superare lo shock, chiedere a Gianfranco e Angelino, da anni avvolti dall’oblio.

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