E’ all’esame del Parlamento italiano il Disegno di legge o Ddl Capitali, volto a potenziare la competitività delle nostre imprese. C’è un punto della proposta del governo che sta attirando le attenzioni del mercato per le sue immediate implicazioni sulla borsa. Riguarda la possibilità di emettere azioni con voto plurimo fino a dieci volte il numero dei titoli effettivamente posseduto. Si tratta di rafforzare una previsione inserita nel 2014 dall’allora governo Renzi all’art.2351 del Codice Civile. Da allora le società non quotate possono emettere azioni con diritto di voto in assemblea fino a tre volte la quantità posseduta.

Differenze tra voto plurimo e voto maggiorato

Non bisogna fare confusione tra azioni con voto plurimo e azioni con voto maggiorato. Questa seconda ipotesi riguarda le società quotate e non consiste in una categoria di azioni vera e propria, bensì nella facoltà assegnata agli statuti delle società di prevedere un premio fedeltà a favore degli azionisti che abbiano mantenuto il possesso continuativo dei titoli per almeno ventiquattro mesi. Il titolare di azioni con voto maggiorato può esercitare un massimo di due voti per ogni azione in suo possesso.

Qual è la ratio di questa previsione nel Ddl Capitali? Piazza Affari continua a perdere pezzi. Da ultima c’è la notizia che Brembo effettuerà il delisting a Milano per quotarsi alla Borsa di Amsterdam. L’Olanda attira società e capitali dal resto d’Europa. Di recente la fuga niente di meno che di Stellantis, ex FCA. Se persino società a controllo statale come Eni ed Enel hanno spostato vuoi la sede fiscale, vuoi quella legale o anche la quotazione in borsa in Olanda, significa che c’è qualcosa che non va in Italia.

Ritrosia delle Pmi a quotarsi in borsa

Il nostro tessuto produttivo si caratterizza per la presenza di numerosissime piccole e medie imprese (Pmi).

Sono l’ossatura dell’economia italiana, ma hanno il limite di essere spesso sottocapitalizzate. Per questo gli investimenti sono legati alla capacità e volontà di erogazione di prestiti da parte del sistema bancario. Servirebbe che un numero maggiore di imprese italiane fosse quotato in borsa per accedere al ricco mercato dei capitali senza dipendere eccessivamente dalle banche. Se ciò non avviene, è essenzialmente per tre ragioni. La prima riguarda i costi: troppo oneroso ancora oggi per una Pmi sbarcare in borsa. Secondariamente, molti imprenditori hanno paura a sottoporre i loro bilanci ai rigidi controlli delle autorità finanziarie e degli stessi azionisti. Infine, temono di perdere il controllo dell’azienda che hanno fondato o ereditato da genitori o nonni.

Su gran parte di questi aspetti intende agire il Ddl Capitali. Il voto plurimo consentirebbe a un azionista di non perdere il controllo della società dopo la quotazione, pur scendendo nel capitale. Sul tema, però, esistono opinioni discordanti tra gli stessi attori del mercato. In audizione alla Commissione Finanze, l’avvocato Sergio Erede del prestigioso studio legale BonelliErede, spiega che la proposta non risolverebbe il problema alla radice. Il voto plurimo, nota, riguarda solamente le azioni emesse dalle società non quotate, mentre quelle che scappano da Piazza Affari verso l’Olanda sono evidentemente già quotate.

A tale proposito, egli propone di rivedere in senso meno restrittivo il voto maggiorato. In effetti, solo potenziando questo istituto si darebbe la possibilità agli azionisti di controllo delle società quotate di mantenere il proprio status in assemblea, anche eventualmente scendendo nel capitale. Tuttavia, come già avemmo modo di dissertare all’epoca del governo Renzi, voto plurimo e voto maggiorato sono buone misure, ma che comportano rischi.

Rischi da Ddl Capitali

L’Italia ha un sistema finanziario in mano a poche grandi famiglie del capitalismo storico.

Grandi si fa per dire. Abbiamo spesso capitalisti squattrinati, che non sono in grado di effettuare gli investimenti necessari per reggere la concorrenza o ingrandirsi. E per non perdere il controllo, mantengono una quota di capitale maggioritaria. Con la conseguenza di nominare manager di fiducia non sempre al massimo dell’efficienza, che il mercato non riesce a mandare a casa. In un siffatto sistema, i capitali esteri affluiscono con il contagocce e persino quelli in patria si dirigono altrove. Questo spiega in grossa parte la fuga delle società verso altre borse. Specie nell’era degli ETF, laddove i capitali sono scarsi le società rischiano di non attirarne a sufficienza e di restare sottovalutate.

Con il potenziamento del voto plurimo nel Ddl Capitali, a parte il fatto che niente muterebbe per le società già quotate, queste criticità del capitalismo italiano si acuirebbero. Con appena il 5% del capitale, un azionista avrebbe la certezza di imporre le sue decisioni in assemblea. Perché mai un fondo d’investimento straniero o un investitore individuale dovrebbero portare i loro denari in una società in cui non conterebbero nulla? I vecchi azionisti manterrebbero il controllo, ma d’altra parte in pochi vi vorrebbero investire. Anzi, si corre il rischio di attirare il cosiddetto “hot money”, i capitali speculativi di investitori non interessati alla gestione, bensì solo a fare cassa comprando e vendendo azioni. Non è quel che serve al sistema Italia.

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