C’era stata tanta euforia dopo i dati Istat del primo semestre, quando il PIL italiano era salito dello 0,6% rispetto ai tre mesi precedenti. Ma il crollo del PIL nel secondo trimestre ha rimesso tutto in discussione. Da una stima preliminare di -0,3% siamo arrivati a un definitivo -0,4%. La crescita economica acquisita per quest’anno è dello 0,7%, meno dello 0,8% stimato a fine luglio. Questo significa che, in assenza di variazioni congiunturali negli ultimi due trimestri, il 2023 crescerebbe proprio dello 0,7%. Il dato risulterebbe inferiore al +0,9% atteso dal governo Meloni con il Def di primavera, quando le previsioni furono alzate dallo 0,6% di novembre.

E allora il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, speculava su un possibile aumento anche dell’1,3%.

Congiunturale internazionale e alta inflazione

Qualcosa è andato e continua ad andare storto. Cosa? L’economia tedesca balla tra recessione e stagnazione e l’Italia esporta in Germania qualcosa come 4 punti di PIL ogni anno. Nel frattempo l’intera Eurozona cresce col freno a mano tirato, la Cina è stata travolta dalla bolla immobiliare e gli Stati Uniti starebbero per esaurire la fase di straordinaria crescita di questi anni. Il contributo delle esportazioni al PIL italiano nel secondo trimestre è stato, dunque, nullo. Ma il crollo del PIL lo spiegano le dinamiche interne. Le ore lavorate sono scese dello 0,5%, di cui -1,9% nelle costruzioni.

I redditi da lavoro dipendente sono cresciuti dello 0,8%, ancora troppo poco con un’inflazione italiana che ad agosto si è attestata al 5,5%. Questo è il vero nodo in questi mesi. Solamente lo scorso anno i redditi in termini reali sono diminuiti del 7% e nel primo semestre di quest’anno si stima un altro pesante -7,5%. I prezzi di beni e servizi corrono, mentre le retribuzioni dei lavoratori dipendenti sono rimaste ferme. Una situazione non dissimile da quanto accade nel resto d’Europa, ma più accentuata.

Se il potere di acquisto crolla, è evidente che prima o poi debba registrarsi anche il crollo del PIL.

Crisi redditi grave in Italia

L’Italia ha alle spalle una crisi dei redditi più che trentennale. In termini reali, risultano scesi del 2,8% tra il 1990 e il 2020. Unico caso nel mondo avanzato. Le distanze con Francia e Germania si sono ampliate di circa il 35%. L’economia italiana ha inseguito un modello basato sulle produzioni “povere”, cioè a basso contenuto tecnologico ed esposte alla concorrenza di economie emergenti come la Cina. La competizione da noi è stata impostata sui bassi salari. A meno che questi non scendano sotto i livelli cinesi, il risultato non può che essere un buco nell’acqua.

Questa è l’eredità che il governo Meloni si ritrova a gestire e che deve iniziare a sovvertire già con la prossima manovra di bilancio. La crisi dei redditi richiede risposte immediate e non superficiali, come la liberalizzazione dei servizi e delle professioni, in modo da calmierare i prezzi. Che si tratti di taxi, stabilimenti balneari e trasporti, non bisogna più guardare in faccia a nessuno. Allo stesso tempo, va sostenuta la crescita dell’economia italiana con interventi lungimiranti. Da una parte c’è il Pnrr che offre l’opportunità di agire sugli investimenti, dall’altra una politica fiscale che deve finalmente redistribuire le risorse a favore del lavoro e dell’impresa. Meno assistenza e più occupazione deve essere il mantra.

Reagire a crollo PIL

Dalle opposizioni l’ex premier Giuseppe Conte sostiene di avere consegnato al governo Meloni “una Ferrari”. L’espressione si commenta da sé. Egli è il principale strenuo sostenitore di due misure varate dai suoi due governi: il reddito di cittadinanza e il Superbonus. Lo stop avrebbe provocato il crollo del PIL, a detta del Movimento 5 Stelle. E’ vero che la crescita economica nel 2021 e 2022 era stata parzialmente “drogata” dai maxi-incentivi alle ristrutturazioni edilizie e così come è altrettanto vero che se dai a un milione di persone un sussidio mensile, questi sarà speso e sosterrà la domanda interna.

Il punto è che quel denaro non nasce dal nulla, ma è sottratto ad altre voci di spesa o accresce complessivamente quest’ultima, tenendo ancora più alta la pressione fiscale. Ancora peggio, è stato erogato sostanzialmente a debito.

Con la prossima manovra il governo Meloni dovrà segnalare a lavoratori e imprese che le risorse (poche) ci saranno in loro favore e saranno sottratte a chi si limita semplicemente a consumarle. E’ questo uno shock necessario per sostenere il ritorno a una mentalità dinamica e porre fine al parassitismo sociale che rischia di zavorrare la crescita anche nei prossimi anni, indipendentemente dalla congiuntura. Nell’attesa che l’inflazione scenda su valori sostenibili e che i redditi tornino a salire, stimolati anche dalle misure di politica economica adottate.

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