In questi lunghi anni di crisi del Venezuela, due sono stati gli alleati più fedeli al regime di Nicolas Maduro: la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping. Pechino ha prestato a Caracas circa 60 miliardi di dollari nell’ultimo decennio, di cui una ventina devono ancora essere restituiti. Ossigeno puro per le case vuote dello stato andino, dove le importazioni sono state quasi azzerate per carenza di valuta estera. Ma proprio l’alleato cinese rischia di aggravare la crisi del Venezuela.

Lo stato ha introdotto una tassa con finalità ufficialmente di natura ambientale. Le raffinerie private dovranno pagare 30-40 dollari per ogni barile di petrolio “pesante” importato.

Nel mirino dei cinesi vi è il greggio ad alto contenuto di bitume. Caracas lo vende alla Cina dopo averlo portato in Malaysia. Qui, viene miscelato ad altre qualità di greggio, al fine di mascherarne la provenienza. Le esportazioni di petrolio venezuelano sono, infatti, oggetto di embargo degli USA sin dal 2019. Si stima che la Cina acquisti quotidianamente la media di 350.000 barili da Caracas. E se considerate che in aprile la produzione di greggio in Venezuela sia scesa a soli 445.000 barili al giorno, capite benissimo che senza le esportazioni verso la Cina, le già risibili estrazioni si azzererebbero.

Le raffinerie cinesi non avrebbero alcuna convenienza ad importare greggio da Caracas con un sovra-costo di 30-40 dollari. E già oggi, a fronte di quotazioni internazionali sui 68 dollari, il paese è costretto ad offrire la materia prima a forte sconto, cioè tra 40 e 45 dollari. La tassa ambientale cinese rischia di provocare un’altra grossa botta alla disastrata economia del Venezuela. La compagnia statale PDVSA dovrebbe cercare nuovi clienti e attirarli verosimilmente con sconti ancora più alti. E non è detto che basterebbe. Le sanzioni americane colpirebbero gli stessi importatori, se scoperti. Nessuno vuole rischiare di trovarsi escluso dal mercato finanziario dell’Occidente.

Crisi del Venezuela più grave senza petrolio

Detto ciò, il punto di domanda è diventato un altro: perché la Cina sta facendo questo? Escluso che la vera finalità sia ambientale, probabile che Pechino voglia colpire il business delle raffinerie private per avvantaggiare quelle statali. Ma a parte che anche questa spiegazione sembra dubbia, non è che il vero obiettivo sia di fermare le importazioni del Venezuela? E a che pro? Il sospetto che serpeggerà in queste ore a Palazzo di Miraflores può essere che dietro vi sia una trattativa sotterranea tra Cina e USA o quanto meno un segnale distensivo lanciato dalla prima all’amministrazione Biden.

Le tensioni tra le due superpotenze non si sono allentate dopo l’uscita dalla Casa Bianca di Donald Trump. Anzi, resta alta sia sui temi commerciali che geopolitici, come dimostrano le minacce cinesi ai danni dell’isola “ribelle” di Taiwan. Chissà che il regime di Xi non voglia sacrificare l’alleato sudamericano come gesto distensivo verso Washington? Aggravando la crisi del Venezuela, costringerebbe Maduro a trattare con gli americani e chiaramente da una posizione di assoluta debolezza. In alternativa, più semplicemente i cinesi sanno che gli americani sanno delle loro importazioni illegali. E per evitare nuove tensioni o sanzioni ai danni delle loro raffinerie, stanno cercando il modo per uscire dal business senza dare troppo nell’occhio.

Di sicuro c’è che senza la Cina, il Venezuela rimane con il solo alleato russo. Troppo poco per sperare di arrestare il tracollo verticale della sua economia, che ormai va avanti dal 2013 senza sosta. E paradossalmente, questo imprevisto arriva in un momento in cui il potere interno di Maduro si consolida. I suoi oppositori politici si mostrano disposti al dialogo e tra questi vi è persino Juan Guaidò, l’auto-proclamato presidente nel gennaio 2019 e riconosciuto come tale da gran parte della comunità internazionale, tra cui gli USA.

Adesso, il pericolo arriva dal principale alleato straniero, nonché creditore prezioso.

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