Il cambio euro-dollaro è sceso sotto la parità e potrebbe essere solo l’inizio di una fase di debolezza estrema e prolungata. Secondo i dati del Commodity Futures Trading Commission, nella settimana al 23 agosto risultavano accese 44.100 posizioni nette ribassiste sull’euro, in aumento dalle 42.800 della settimana precedente. Si tratta del dato più alto dal marzo 2020, quando a inizio pandemia le posizioni contro la moneta unica arrivarono a 86.700. Tradotto per i comuni mortali: il mercato sta scommettendo sempre più su una crisi dell’euro.

E non viene difficile capire perché. In questa fase, l’Eurozona si mostra in balia della crisi energetica. Più i prezzi di gas e petrolio salgono, più il cambio scende. A sua volta, quest’ultimo innalza i costi dei beni importati, accelerando i tassi d’inflazione.

BCE sola contro l’inflazione

In una situazione ordinaria, la BCE avrebbe già dovuto alzare i tassi d’interesse ben sopra lo zero al fine di combattere il carovita. Ma non ha potuto farlo per il semplice fatto che teme di portare l’economia dell’area in recessione. A differenza di ogni altra banca centrale, infatti, essa gestisce la politica monetaria di 19 stati autonomi. Non ha una controparte fiscale con cui confrontarsi e coordinarsi per reagire all’alta inflazione. E ciò genera la crisi dell’euro.

A dire il vero, esisterebbe la Commissione europea, retta da tre anni da Ursula von der Leyen, la persona sbagliata nel momento sbagliato. Tralasciamo la sua totale assenza di carisma e i forti dubbi sulle sue competenze politiche. Il problema di questa fase si chiama energia. Per fermare la corsa del gas, l’Europa dovrebbe battere un colpo. O cerca una soluzione per velocizzare la fine della guerra tra Russia e Ucraina, tra l’altro aumentando le forniture di armi a Kiev per almeno tentare di ribaltare le sorti belliche, o trova una soluzione “tecnica” al boom dei prezzi.

Crisi dell’euro con Commissione inerte

La Commissione avrebbe un ventaglio di interventi possibili dinnanzi a sé: sganciare il prezzo del gas da quello dell’energia, sospendere gli Ets, imporre un tetto europeo al prezzo del gas e varare un secondo Recovery Fund a sostegno delle misure nazionali di contrasto al caro bollette. L’inazione comporta per i governi lo stanziamento di centinaia di miliardi di euro per sostenere imprese e famiglie, le quali altrimenti andrebbero a gambe per aria. Possiamo discutere quanto vogliamo sulla necessità di tenere i conti pubblici in ordine, ma la realtà è questa e chi la nega è cieco.

La crisi dell’euro scaturisce proprio da queste evidenze. Se i governi nazionali non trovano sostegno a Bruxelles, dovranno arrangiarsi da soli. Come? Indebitandosi. Non tutti dispongono degli spazi di manovra fiscale per farlo. Quindi, rendimenti in fuga in Italia, recessione economica in vista nell’area, tensioni finanziarie e BCE paralizzata sul rialzo dei tassi. Una risposta inadeguata porta inevitabilmente a scommettere contro la moneta unica. Accadde nel 2008, quando non vi fu alcun coordinamento contro la crisi finanziaria mondiale. Si ripeté nel marzo 2020, quando il mercato temette di ritrovarsi dinnanzi a una crisi dei debiti sovrani come dieci anni prima. Per fortuna, lo shock simmetrico della pandemia convinse allora i governi a varare Recovery Fund e PEPP per segnalare una risposta unitaria.

E oggi? C’è qualcuno che ancora s’illude che la crisi del gas lo risparmierà o farà molto più male agli altri. Piccinerie di istituzioni sgangherate nell’Eurozona, dove le ottusità nazionali soverchiano spesso e volentieri una visione generale dei problemi. I governi si riuniranno a settembre per discutere di crisi energetica. Con tutta calma, dopo le sudate ferie estive. A dirla tutta, fa strano che la crisi dell’euro non sia già deflagrata in tutta la sua potenza.

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