I dati ISTAT non lasciano spazio all’immaginazione, anzi danno piena conferma della sensazione che ciascuno di noi avverte quando mette piede in un supermercato: i prezzi stanno salendo alle stelle. L’inflazione nel mese di settembre è schizzata all’8,9%, ai massimi da metà anni Ottanta. E il cosiddetto “carrello della spesa”, cioè il paniere dei beni di consumo acquistati con maggiore frequenza dalle famiglie-tipo, segna un rialzo dell’11,1%. E’ il dato più alto dal 1983. La situazione è tragica, anche perché gli stipendi sono fermi.

Dunque, la perdita della capacità di acquisto coincide quasi perfettamente con il dato dell’inflazione. Detto in parole semplici, siamo più poveri di un buon 10% rispetto all’anno scorso, quando già non è che navigassimo nell’oro. Anzi, iniziavamo a riprenderci dopo la batosta della pandemia.

Famiglie e imprese sono disperate. Entrambe non sanno come pagare le bollette. Lo stato è certamente preoccupato per i risvolti sociali di questo disastro, ma al tempo stesso “gode” di un beneficio che non s’intravedeva oramai dalla fine degli anni Ottanta. Come molti di voi sapranno, l’inflazione tende a fare bene a chi possiede debiti, perché al creditore restituisce una somma di denaro svalutata. Nel caso dei conti pubblici, essa aumenta il PIL nominale, per cui deprime il rapporto debito/PIL. Se per ipotesi estrema quest’anno l’inflazione esplodesse al 100% e non crescessimo di uno zero virgola, il rapporto debito/PIL, ceteris paribus, si dimezzerebbe al 75%.

L’impatto sui conti pubblici

Per capire se il debito pubblico di uno stato sia sostenibile o meno, molti analisti osservano un famoso Delta, ovvero la differenza tra il tasso di crescita del PIL nominale e il tasso implicito. Il primo capta la somma tra crescita del PIL reale e inflazione. Il secondo è dato dal rapporto tra spesa per interessi e stock del debito.

In pratica, ci indica quanto ci costa indebitarci. Se tale differenza risulta positiva, significa che il rapporto debito/PIL tende a ridursi. Se risulta negativa, significa che tale rapporto tende ad aumentare.

Ebbene, stando alle previsioni contenute nella Nota di aggiornamento al DEF, per gli anni 2022-2025 questi sarebbero i dati salienti di cui sopra:

  • Anno PIL Nominale – Tasso implicito
  • 2022: 6,4% – 2,7%
  • 2023: 4,4% – 2,7%
  • 2024: 4,3% – 2,65%
  • 2025: 3,5% – 2,76%

In pratica, in ciascuno dei prossimi tre anni, il tasso implicito resterebbe in misura pur decrescente più basso del tasso di crescita del PIL nominale. Si va da una differenza positiva del 3,7% atteso per quest’anno allo 0,75% del 2025. E lo scorso anno, è stata del 4,9%. Infatti, il PIL nominale nel 2021 crebbe del 7,3% e il tasso impliciti si fermò al 2,4%. Non accadeva sin dal 1988 di assistere a una differenza positiva. Da quell’anno fino al 2020, infatti, la crescita nominale dell’economia italiana era risultata sempre inferiore al rapporto tra spesa per interessi e stock del debito.

Delta tornato positivo con l’inflazione

Cos’è cambiato? Semplicemente, per decenni l’Italia ha avuto una bassa crescita dell’economia, accompagnata da una bassa inflazione. Dopo la fase clou della pandemia, la crescita è rimbalzata e l’inflazione è esplosa. Per contro, la spesa per interessi sta mantenendosi costante in rapporto allo stock del debito pubblico. Paradossalmente, quindi, l’Italia può guardare con un minimo di fiducia alla sostenibilità dei suoi conti pubblici proprio “grazie” all’inflazione. Infatti, essa quest’anno inciderà per quasi la metà della crescita nominale attesa e l’anno prossimo per oltre l’86%, risultando componente maggioritaria anche per il biennio successivo.

D’altra parte, l’alta inflazione aumenta il gettito fiscale grazie alla spinta che imprime nel tempo ai redditi e alla base imponibile su cui calcolare l’IVA. E se è vero che accresce anche il livello dei rendimenti pretesi dal mercato sui titoli del debito pubblico, fintantoché essi rimarranno negativi in termini reali il problema si pone relativamente.

Insomma, brutto a dirsi, ma gli stati tifano per un bel po’ d’inflazione. Essi sono consapevoli che le alternative per ridurre il rapporto debito/PIL sarebbero più dolorose sul piano sociale e finanziario: austerità fiscale e ristrutturazione dei bond. Ma l’inflazione rischia di innescare una bomba sociale dagli effetti devastanti per la tenuta delle democrazie europee.

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